Quelli che il calcio

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E’ la notizia che domina l’ultimo scorcio dell’anno: la morte di un ultrà interista fuori dallo stadio di San Siro, prima di una partita alla quale la vittima non avrebbe potuto assistere perché colpita da un Daspo. Se ne discute in lungo e in largo, ciascuno ha la propria ricetta per risolvere il problema della violenza che fa da contorno al calcio, non soltanto quello professionistico, e che, a intermittenza, infiamma il dibattito. Perché a intermittenza? Perché la questione arriva sulle prime pagine dei giornali e in Tv quando accade qualcosa di esagerato, di inaccettabile o, come nella sera di Santo Stefano, di drammatico. Poi, come sempre accade nel nostro Paese, su questa come su mille altre situazioni, si passa oltre, cala il silenzio. Fino alla prossima volta.

Non conoscevamo di persona Daniele Belardinelli, l’uomo investito e ucciso da un Suv durante gli scontri di mercoledì 26 dicembre a Milano. Per Matteo Bianchi, primo cittadino di Morazzone, il paese dove abitava, “Daniele era un marito e un papà normale, che non ha mai dato alcun problema (…). Con altri amici ha fondato la Fight Academy, una palestra di arti marziali dove l’attività è sempre stata esemplare (…). Da sindaco del paese, con loro ho sempre avuto ottime interlocuzioni, così come con tutto il resto della famiglia. Insomma, si tratta di persone ben volute”.

Doverosa l’umana pietà per una vita cancellata, per la moglie e per i due figli rimasti orfani, ma che cosa ci faceva una persona che il sindaco giudica perbene fuori da uno stadio, il giorno dopo Natale, in un contesto dove l’obiettivo era menar le mani? Daniele militava in una associazione di ultras varesini dal nome perlomeno inquietante, Blood Honour, e aveva già due Daspo alle spalle. Non siamo nelle condizioni di impancarci, di giudicare, né, tanto meno, di emettere sentenze nei confronti di una persona che purtroppo non c’è più. La sua tragica fine potrebbe però avere un senso se servisse a far crescere nel Paese o, quanto meno, in quelle minoranze del Paese che usano il calcio come pretesto per manifestare la loro rabbia, una nuova coscienza. Rabbia spesso accompagnata da sottofondi di xenofobia e di razzismo. Cifre a cui dovremmo ribellarci incondizionatamente ma alle quali, a cominciare dalle società calcistiche, a volte ci si adegua per i più disparati motivi. Anche per ignavia, che è figlia della codardia.

Ora si discute su come arginare il problema. Tutti dicono la loro e propongono sanzioni, ricette, soluzioni. In Inghilterra, dove la questione era già oltre l’emergenza, l’hanno risolta egregiamente: negli stadi non vola una mosca se non quelle del tifo vero, pulito, riconosciuto. In Inghilterra; noi, invece, qui a litigare e a fasciarci la testa. Con il dubbio che ci sia qualcuno che cavalchi la faccenda a fini politici, qualcuno a cui interessi lasciare le cose come stanno per miserevoli obiettivi e interessi di parte. Magari ci sbagliamo. Anzi, vorremmo tanto sbagliarci. Ma se così non fosse, di razzismo nelle curve degli stadi, di risse col morto, di saluti romani, di esibizioni e cori da far arrossire chiunque, non sentiremmo più parlare. E da un pezzo.

 

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