Samarate, dopo la violenza il coraggio di essere donna. La storia di Maria Teresa

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Nella foto Maria Teresa Catroppa con i figli Jarno e India

SAMARATE – «Maria Teresa Catroppa, Samarate, Varese. Persona, donna, madre, figlia, sorella, amica». Si chiude così il lungo post pubblicato lunedì 8 marzo da Maria Teresa, samaratese di 47 anni, capace in una manciata di parole di definire la violenza subita. Capace di definirsi: persona, donna, madre, figlia, sorella, amica. Non vittima. Un post pubblicato l’8 marzo per ragioni simboliche che andrebbe riletto ogni giorno. L’attualità delle parole è terrificante.

Un post virale

Un post bilanciato, ponderato, non rabbioso. Il tono è giusto: la rabbia iniziale, generata da un fatto, lascia spazio alla speranza per altre donne via via che lei si racconta. Sarà per questo che in poche ore è diventato virale. «Un post che arriva da anni di riflessioni – spiega Maria Teresa – Ho atteso, prima di scriverlo, che i tempi fossero quelli giusti. E prima di pubblicarlo l’ho fatto leggere ai miei figli: il loro bene è assoluto. Mai farei nulla che possa turbarli». E i figli hanno detto: «Siamo d’accordo». Il maggiore ha aggiunto: «Sono orgoglioso di te».

Persona, donna, madre. Non vittima

Un post a lungo ponderato, si diceva, perché i fatti risalgono a 10 anni fa. «Quando ho vissuto il mio anno più lungo – racconta Maria Teresa – Scoprendo dopo 20 anni d’amore, o almeno così credevo, chi davvero fosse l’uomo che avevo accanto». Catroppa, comprensibilmente, non scende nei dettagli: «All’improvviso avevo scoperto che aveva una doppia vita – spiega – E il fatto che io conoscessi la verità, che lo vedessi per ciò che era forse per la prima volta, gli era insopportabile». Dal gennaio 2010 al settembre 2011 Maria Teresa conosce sulla sua pelle tutta l’escalation che un abusante compie: «Violenza psicologica, violenza contro gli oggetti, tentativi di privarmi della mia indipendenza, violenza fisica», spiega. Lei non temporeggia e denuncia: una, due, tre, dieci volte. Anche dopo l’episodio più brutale: il marito (oggi ex) la colpisce al volto con una testata devastante. «Sono andata in ospedale da sola, con la mia auto – racconta – Ho spiegato l’accaduto. Il medico mi ha detto che potenzialmente avrebbe potuto uccidermi colpendomi con l’osso più resistente del corpo caricato di tutto il suo peso. Mentre accadeva ho pensato che mi avrebbe dato un pugno. Ho continuato a guardarlo negli occhi per dimostrargli che non avevo paura. All’improvviso la testata».

Una legge insufficiente

La prognosi supera i 21 giorni, l’autorità giudiziaria avrebbe potuto procedere d’ufficio, ma c’erano già anche le denunce. «La legge all’epoca era diversa, farraginosa – spiega Maria Teresa – Per mesi non fu emesso alcun provvedimento restrittivo nei suoi confronti. E paradossalmente questo lo faceva sentire forte e diventava ancora più violento. “Visto, non mi succede niente”, pensava. Un senso di impunità che lo ha reso ancora più pericoloso». E’ a quel punto che Maria Teresa decide. Decide per se stessa: «Non voleva andarsene da casa – spiega – In un attimo presi i miei figli e le nostre poche cose e me ne andai io». Un taglio netto. Maria Teresa non si è mai più guardata indietro.

Mi sono ricordata di me

«Disse che ci avrebbe affamati – racconta – Non è andata così – aggiunge giustamente fiera – Abbiamo vissuto e viviamo anni meravigliosi». Cosa è accaduto? «Ho fatto quello che dovevo: ho denunciato, mi sono rivolta a un centro antiviolenza e soprattutto mi sono ricordata di me. Di me: Maria Teresa. Della ragazza che a 20 anni si era iscritta a giurisprudenza perché voleva lavorare con le organizzazioni che sostengono chi è in difficoltà. Che innamorata si è lasciata convincere a lasciar perdere, a sposarsi dopo aver trovato un ottimo lavoro come impiegata. Ma non era ciò che volevo fare. E mi sono rimessa a studiare». Al diploma in ragioneria si aggiunge «Quello ottenuto al termine di un corso di due anni come infermiera volontaria della Croce Rossa. Sommando a tutto questo la mia esperienza di anni nel volontariato ho trovato il lavoro che volevo. Il mio lavoro, quello che amo: oggi lavoro a Samarate in centro di accoglienza per migranti. Non ho contatti con il mio ex marito e non voglio averne, ad un certo punto si è reso anche irreperibile, anche se da qualche mese, ha ripreso i contatti con i figli tramite la mediazione degli assistenti sociali come previsto dal decreto del tribunale dei minori. Ho sempre tutelato il rapporto tra lui e i figli. L’ho fatto per loro, non dovevano subire traumi. E così è stato». Maria Teresa oggi è realizzata. Ha saldamente in mano la propria vita e sta bene con se stessa. Persona, donna, madre, figlia, sorella, amica. Non vittima. «Il post vuole dire proprio questo – conclude – E se anche sarà una soltanto la donna risvegliata dalle mie parole, ne sarà valsa la pena».

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