di Luigi Patrini
Sono passati quasi 20 anni da quando, nel lontano 2000, fu approvata la famosa legge 62, che fissa la parità scolastica tra scuole “statali” e “private” (in questo caso sarebbe meglio definirle “libere”) che ne abbiano i requisiti, entrambe componenti l’unico Sistema Scolastico Nazionale.
Vent’anni passati invano, perché tutti i ministri alla P.I. che si sono succeduti (di centro destra o di centro sinistra) non hanno fatto nulla di significativo per dare attuazione alle norme di quella legge: nessuno di loro infatti ha operato in modo significativo sulla questione economica, che è evidentemente decisiva. L’onoevole Gelmini, ad esempio, disse – una decina di anni fa, nel 2010 – che “lo Stato avrebbe dovuto fare di più per le scuole paritarie”. Ma lo Stato non era lei, o, almeno, non era il Governo di cui faceva parte?!
Periodicamente si ritorna a parlarne, ma si rischia di essere ancora in una situazione insostenibile e contraddittoria, la stessa che esplode sempre nel momento in cui il Governo incomincia a preparare la “finanziaria”, il passaggio più temuto dalle scuole “libere”, perché la parità con le scuole “statali” ci sarebbe solo se ci fosse una reale libertà di scelta.
Questa, però, potrebbe esserci solo se chi sceglie di mandare i propri figli in una scuola “libera” potesse avere la possibilità di sborsare una cifra paragonabile a quella della scuola statale: invece no, si tratta di pagare 3-4.000 euro all’anno invece di 150-200 e allora … addio “parità”!
Eppure, le famiglie che inviano circa un milione di studenti alla scuola “libera” ogni anno, fanno risparmiare allo Stato non meno di 6 miliardi di euro: una cifra astronomica, sproporzionata sia rispetto ai quasi 500 milioni di euro messi a disposizione delle “paritarie” (erogati con gravi ritardi), sia ai non meno di 50 miliardi di euro che costano annualmente le “statali”.
La riforma del 2000 nasceva dall’esigenza di stabilire una normativa che attuasse il principio della libertà educativa sostenuto dalla nostra Costituzione (si vedano in particolare gli articoli 2, 3, 30, 33 e 34) e rendesse più “moderna” la nostra scuola, visto che il pluralismo scolastico trova pratica attuazione in tanti altri Paesi europei ed extraeuropei. Si pensi che in gran parte d’ Europa – compresa quella ex-comunista – la frequenza di un istituto non statale fa parte dei diritti sostenuti, anche finanziariamente, dallo Stato! In Italia, invece, qualche passo si è fatto, soprattutto per merito di alcune Regioni (la Lombardia del “buono-scuola”, ad esempio), ma il dibattito è ancora fermo – per “ragioni” (!) soprattutto ideologiche – a quel “senza oneri per lo Stato” che, nei fatti, impedisce una reale attuazione della libertà di educazione.
Un genitore che volesse legittimamente scegliere insegnanti che condividano il suo progetto educativo e la sua visione dell’uomo non può farlo, a meno che non abbia un consistente reddito che gli consente di affrontare la spesa: nel nostro Paese si può scegliersi un abito o un’automobile, il gestore telefonico, ma non si può fruire di una vera libertà educativa, scegliendo la scuola che si ritiene più adeguata per i propri figli.
Mi piace ricordare che la libertà di educazione è, insieme alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna e alla tutela della vita, una delle tre questioni che la Chiesa stessa giudica “non negoziabili”! E’ evidente che una presenza significativa della scuola “pubblica non-statale” favorirebbe il miglioramento di tutto il sistema scolastico, chiamato a confrontarsi liberamente per raggiungere risultati migliori e ampliare l’offerta formativa proposta alle famiglie. Un guadagno secco, dunque, per tutta la società, che si avvantaggerebbe di una sana emulazione, e per lo Stato, le cui casse avrebbero un consistente risparmio finanziario.
Sarebbe bene parlare di queste questioni; ambienti dell’associazionismo familiare, dopo le prime aspettative fiduciose, cominciano ad essere preoccupati della politica scolastica del Governo, perché il ministro Marco Bussetti, presentando qualche giorno fa in Senato le linee programmatiche del MIUR (circa 22 cartelle) non ha minimamente accennato alla questione, mentre, quasi contemporaneamente, il M5S con una sua nota ha sottolineato, forse non casualmente, “la centralità e la priorità della scuola pubblica”.
Speriamo che il ministro, che ha retto a lungo la scuola in Lombardia, non dimentichi la positività del “buono-scuola”, introdotto dalla nostra Regione quasi vent’anni fa.
Buona scuola paritarie – MALPENSA24