Caso Macchi, Binda presenta il conto: 327mila euro per ingiusta detenzione

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Lidia Macchi e Stefano Binda

BREBBIA – Un risarcimento pari a 327mila euro per Stefano Binda. Che questo è quanto sarebbe accaduto era apparso chiaro lo scorso 27 gennaio quando la Cassazione aveva assolto in via definitiva e con formula piena il 52enne di Brebbia, arrestato nel gennaio 2016, con l’accusa di aver assassinato con 29 coltellate Lidia Macchi, giovane studentessa varesina, uccisa nel gennaio del 1987 e ritrovata cadavere al Sass Pinì di Cittiglio.

Chiesto il massimo del risarcimento

Ora i legali di Binda, Sergio Martelli e Patrizia Esposito, hanno formalmente depositato la richiesta risarcitoria alla quinta sezione penale della Corte d’Appello di Milano. Chiedendo il massimo della rifusione del danno per l’ingiusta detenzione patita: tre anni e mezzo di carcere imposti al 52enne quale conseguenza della custodia cautelare in carcere applicata.  «C’è un tetto massimo di 530 mila euro – avevano spiegato Martelli e Esposito – Il vecchio miliardo di lire. Viene riconosciuto un risarcimento di 250 euro al giorno per l’ingiusta detenzione». I tre anni e mezzo di custodia cautelare in carcere di Binda si potrebbero tradurre in un risarcimento di circa 327mila euro.

Un caso di malagiustizia

La vicenda è notissima ed è citata quale emblematico caso di malagiustizia. Binda fu arrestato e condannato all’ergastolo in primo grado. Sentenza poi ribaltata in Appello con immediata scarcerazione dell’ex compagno di scuola di Lidia, che ha sempre detto di essere innocente e anzi aveva fornito un alibi (una vacanza a Pragelato) nei giorni in cui la studentessa veniva assassinata. I giudici di secondo grado sottolinearono che non solo non c’erano prove della colpevolezza di Binda ma non esistevano nemmeno indizi che lo collegassero al delitto. La pietra tombale sulla vicenda l’ha messa la Cassazione sottolineando come i giudici d’appello hanno verificato la «certezza fattuale di ogni singolo elemento addotto dall’accusa», per arrivare «con logicità e congruenza di argomenti alla conclusione che i dati indiziari non hanno alcun grado di certezza in fatto e nessuna valenza intrinseca, perché frutto di presunzioni e congetture». La prima sezione penale della Cassazione, replicando ai motivi di ricorso della procura generale, ricordava inoltre che «le tracce biologiche sulla busta con cui fu spedita ai familiari di Lidia Macchi la poesia ‘in morte di un’amica’ non appartengano all’imputato, il che non è per nulla marginale». Cosi’ come non sono sue nemmeno le tracce rinvenute sulla salma dopo la riesumazione: e questo, sottolinea il collegio, «E’ unrisultato di prove a favore» di Binda. Per la Corte gli elementi indiziari sono stati «valutati con rigore logico e correttezza di metodo» e le conclusioni sono motivate con «adeguatezza e completezza».

Binda ha sempre detto la verità

Ora è arrivata la richiesta del risarcimento del danno patito. «La quinta sezione della Corte d’Appello di Milano potrebbe anche decidere di rigettarlo, però. Binda si è avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio di garanzia. Ma avvalendosi non ha di fatto privato l’indagine di qualche elemento fondamentale. Ha sempre detto di essere innocente e di trovarsi a Pragelato mentre Lidia veniva uccisa. Alibi confermato da alcuni testimoni in sede processuale. Alibi che in primo grado non è stato considerato», aveva spiegato l’avvocato Esposito.

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