Mafia nel nord della provincia: in 17 rinviati a giudizio. Processo a Varese a luglio

VARESE – Chiusa l’inchiesta “Nerone”: ieri, giovedì 9 marzo, udienza davanti al Gup di Milano. Diciassette dei 19 indagati sono stati rinviati a giudizio. Il processo spostato da Milano a Varese, per competenza territoriale, inizierà il 4 luglio. Accolta la richiesta di messa alla prova per l’ex carabiniere, all’epoca in servizio nella compagnia di Luino, accusato di aver fornito informazioni gli indagati. Rito abbreviato per uno dei ristoratori taglieggiati accusato di aver informato i coinvolti nelle indagini delle “cimici” piazzate nel suo locale.

Il metodo mafioso

Quella di ieri è stata un’udienza preliminare lunghissima: quattro ore durante le quali i difensori hanno eccepito sul fronte dell’aggravante del metodo mafioso contestata ad alcuni degli imputati. Tutto rigettato: il processo si aprirà il prossimo 4 luglio a Varese per competenza territoriale.

Le indagini

Le indagini hanno preso l’avvio nel 2017 da una serie di incendi registrati in zona. Auto date alle fiamme: roghi dolosi al di là di ogni ragionevole dubbio. Questo tipo di reati viene definito “sentinella” dalle Dda di tutta Italia. Sono spie di quella che potrebbe essere un’attività criminale ben più complessa. Sono i carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Varese ad intuire uno scenario più ramificato e a dare il via ad un’indagine complessa e ad alta tecnologia con intercettazioni telefoniche e ambientali a tappeto. Nelle fasi iniziali l’indagine viene coordinata dalla procura di Varese: l’inchiesta arriva a coinvolgere anche alcuni esponenti della magistratura la cui posizione sarà in seguito archiviata dalla procura bresciana, competente in materia.

Lo spaccio

Quando appare chiaro il ruolo apicale, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, di Giuseppe Torcasio, detto Zio Pino, in uno dei due sodalizi l’inchiesta passa per competenza alla Dda di Milano. Zio Pino ha un legame di parentela con Vincenzo Torcasio, detto “u Niuru” già condannato nel 2017 per associazione a delinquere di stampo mafioso e “contiguo” alla cosca Giampà. Sul fronte cocaina l’indagine ricostruisce un business di “alto profilo” lontanissimo dallo spaccio nei boschi lasciato alla criminalità nordafricana. Un business che si consuma nei locali che si affacciano sul lago Maggiore e che vede tra i clienti italiani facoltosi.

Le estorsioni

Sul fronte estorsioni quella messa in piedi dall’organizzazione era una piccola “finanziaria locale” che prestava denaro salvo poi chiederne la restituzione con interessi da strozzino. Il “recupero crediti” avveniva con quel metodo mafioso che il pubblico ministero Cerreti contesta. Botte e minacce pesantissime ma anche «Avvalendosi della forza intimidatrice derivante dalla suggestione di un vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento ed omertà che ne derivano, in ragione della peculiarità delle richieste che esprimono tecniche collaudate tipiche del controllo del territorio». Le stesse “tecniche” venivano utilizzate, ad esempio, per farsi “sistemare” alcune pratiche edilizie. In quest’ambito era stato preso di mira un professionista “reo” di non avere evaso in maniera abbastanza celere la pratica edilizia relativa ad un cantiere riconducile a Torcasio. «Va ammazzato e basta», questo l’input per mettere “stress” al malcapitato geometra. 

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