VISTO&RIVISTO Tre è il numero perfetto. Forse

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di Andrea Minchella

VISTO

KINDS OF KINDNESS, di Yorgos Lanthimos (Stati Uniti- Regno Unito- Irlanda 2024, 164 min.).

Ritorno alle origini per il regista greco che ritrova lo sceneggiatore Efthymis Filippou con il quale ha scritto e realizzato l’agghiacciante “”Dogtooth” del 2009 e l’asfissiante “The Lobster” del 2015 che lo hanno reso famoso e apprezzato in tutto il mondo. Se, poi, con “La Favorita” e l’ultimo “Povere Creature” è stato definitivamente legittimato anche dal grande pubblico, con “Kind of Kindness” il visionario autore ellenico ritorna, appunto, sulla tortuosa e complicata strada della rappresentazione didascalica ed essenziale della società contemporanea stretta tra la bulimia di dogmi morali, l’ossessione del sesso come elemento fondante e la venerazione del corpo come una religione potente e dilaniante.

Lanthimos ritrova per la terza volta Emma Stone, per la seconda Willem Dafoe e li trasforma in perfetti feticci da inserire in una vicenda, declinata in tre storie diverse, che ruota attorno alla deformazione del concetto di amore e all’estremizzazione delle conseguenze di una dipendenza ossessiva da qualcosa o da qualcuno. Difficile seguire un filo narrativo di quasi tre ore senza apprezzare come atto di fede indiscutibile la capacità narrativa e grammaticale del regista greco.

La grammatica, qui, diventa una parte fondamentale della narrazione. Abbandonati i grandangoli de “La Favorita” e le scenografie fantastiche di “Povere Creature”, in questo estenuante racconto ritroviamo una costruzione scenografica simmetrica e lineare in cui i personaggi si muovono come pedine di una scacchiera deformata. Emma Stone e il bravissimo Jesse Plemons si mettono al servizio di un regista che sa tirare fuori dai suoi attori ciò che poi rimane indelebile sulla pellicola. Stone e Plemons si prestano ad una camaleontica cavalcata di personaggi che restituiscono tre vicende in cui il disagio e la disfunzione delle emozioni sono una prerogativa fondamentale e unica dei protagonisti.

In questo racconto l’amore si confonde con il sesso. Il sogno con la realtà. La morte con la vita. Il corpo viene confuso con l’anima. Ogni cosa è feticcio di sé stesso. Come il casco incidentato di Ayrton Senna, le scarpe preziose di Jordan o la racchetta deformata di McEnroe, anche i personaggi di questo labirintico racconto rappresentano l’ossessione umana della forma e dell’immagine. Ogni sequenza viene cucita addosso a personaggi enigmatici che cercano ossessivamente l’immortalità del corpo più che dell’anima. Cercano l’amore inteso e frainteso come essere disposti a compiere un gesto estremo pur di essere amati. Cercano il divino per ridare vita a ciò che non ha più anima.

Lanthimos realizza un viaggio nell’assurdo cercando però il più possibile di utilizzare una lingua asciutta e snervante. Cita Kubrick, Gondry, Von Trier, Kaufman, Cronenberg e tutti quegli autori che utilizzano la cinepresa come linguaggio universale dell’assurdo e della contraddizione. Aggiunge al suo lungo lavoro di montaggio una colonna sonora bidimensionale fatta di note e suoni primordiali che aiutano e velocizzano la distorsione delle immagini a favore di una narrazione che sobbalza tra momenti quasi onirici a fotogrammi in cui la verità e la menzogna si mischiano dando vita ad una realtà soggettiva e ossessiva.

Dunque “Kind of Kindness” vuole restituire i temi cari al regista greco in una forma nuovamente ermetica che perde la grandezza e la maestosità scenografiche dei suoi ultimi due lavori. Ci si chiede se ritornare all’atto primordiale sia davvero un’urgenza artistica dell’autore o invece sia un tentativo di tornare ad una grammatica istintiva e impulsiva perché più adatta ad un’anima artistica tanto complicata quanto enigmatica. Questo non ci è dato saperlo, resta soltanto l’attesa per il suo prossimo lavoro.

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RIVISTO

DOGTOOTH, di Yorgos Lanthimos (Kynodontas, Grecia 2009, 93 min.).

Assurdo e violento. Angosciante e cinico. La famiglia di Lanthimos fa più paura di mostruose creature o di terribili delitti. Perché in “Dogtooth” sono racchiuse le fobie, le paure e le ossessioni della società contemporanea di cui tutti noi facciamo parte, nessuno escluso.

Il regista greco racchiude tutto il marcio che esiste nella famiglia e che investe ogni individuo che ne fa parte. Follia e protezione si fondono trasformando una famiglia in una delle peggiori prigioni. Da rivedere senza pregiudizi.

michella visto rivisto – MALPENSA24