VISTO&RIVISTO Una favola raccontata con garbo e gentilezza

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di Andrea Minchella

VISTO

PINOCCHIO, di Matteo Garrone (Italia-Francia 2019, 120 min.).

Una tappa obbligata. Una scommessa che ogni regista vorrebbe fare. Pochi hanno avuto il coraggio di cimentarsi con la creatura di Collodi. Nessuno ha mai vinto questa scommessa. Almeno fino a Garrone. Il “Pinocchio” di Garrone, infatti, probabilmente ha centrato l’obbiettivo. Il regista, forse, è riuscito a raccontare la storia più iconografica che esista nell’unico modo in cui si poteva realizzare: per sottrazione. Il film, infatti, lascia tutto lo spazio alla mitografica vicenda del burattino, senza aggiungere nessun elemento barocco o forzatamente circense, come spesso è stato fatto. Anche il trucco, che in alcuni casi sembra rimarcato, è in realtà una leggera patina che non altera l’anima dei personaggi. L’anima e la testimonianza dei protagonisti, infatti, diventano gli ingredienti centrali di una favola mitica e piena di simboli.

Garrone, che insieme all’istrionico Ceccherini ha curato anche la sceneggiatura, ha realizzato un racconto pieno di citazioni cinematografiche: da “La Vita è Bella” di Roberto Benigni alla “Storia Infinita” di Wolfang Petersen, dalla cinematografia di Steven Spielberg fino ai rimandi più nostrani di Fellini e De Sica. Collodi ha scritto una fiaba universale e all’avanguardia. Collodi ha scritto una magnifica opera che ben si presta alla trasposizione cinematografica. È però difficile realizzare una pellicola che non appesantisca troppo una storia emblematica, mitografica e fortemente evocativa. Garrone si è sforzato parecchio, ed ha realizzato una fedele riproduzione di un’opera d’arte che non ha età. A partire dalla scelta del protagonista: un Pinocchio più umano di tanti umani che ci circondano. Un Pinocchio che nello sguardo racchiude la sua magia, fatta di speranza e di ricerca del padre. Giusta anche la scelta di Benigni che si autocita in un originale cortocircuito artistico che solo Matteo Garrone poteva realizzare.

Garrone ci racconta la vicenda del piccolo Pinocchio cercando di immedesimarsi con lo straordinario scrittore Fiorentino, che vedeva nel piccolo burattino un filo conduttore di tutte le vicende umane e di tutte le fasi della vita di un uomo. La grandezza di Carlo Collodi risiede nella sua puntuale e lucida anticipazione geniale di elementi e tematiche che avrebbero caratterizzato la società del Novecento. Il tema della cultura come possibilità di emancipazione, il tema della povertà e dell’assistenza come ricchezza di un paese, ed infine, l’attualissimo tema dell’accettazione del diverso, sono alcuni passaggi centrali che Garrone è riuscito ad inserire con garbo e poesia nel suo lineare “Pinocchio”.

Toglie il fiato allo spettatore tutta la sequenza in cui Pinocchio e il suo babbo Geppetto, usciti dalle fauci della felliniana balena, vagano rischiando di affogare in un mare scuro, mosso ed attualissimo. Essere salvati diventa un passaggio fondamentale dell’intera vicenda. La speranza e la voglia di riscatto sono le uniche cose che i due malcapitati possiedono prima di avventurarsi in una traversata la cui riuscita è incerta e improbabile. Collodi, certo, non si immaginava ciò che l’Europa avrebbe vissuto più di cento anni dopo la sua morte, ma Garrone, visionario regista contemporaneo, inserisce anche questa riflessione con una capacità scenica di estrema bellezza.

Nell’attesa che qualche regista decida di raccontarci la vita del vero padre di Pinocchio, questa trasposizione diventa a pieno titolo la miglior che il cinema sia stata capace di regalare. Anche il gigante Walt Disney, che nel 1940 aveva realizzato forse il suo più discusso e difficile progetto, aveva scontentato parecchio gli eredi di Collodi che, puntualmente, non avevano perduto l’occasione di criticare le scelte “egocentriche” e “filo-americane” che il padre di Topolino aveva fatto per personalizzare la favola nata a Firenze qualche decennio prima.

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RIVISTO

A.I. INTELLIGENZA ARTIFICIALE, di Steven Spielberg (A.I. Artificial Intelligence, Stati Uniti 2001, 146min.).

Forse non il miglior progetto di Spielberg. Certamente uno dei più poetici e malinconici. Questo “A.I.” nasce da un vecchio progetto di Stanley Kubrick che non era riuscito a realizzare per via delle tecnologie cinematografiche non ancora all’altezza per l’ambizione dell’intero progetto. Spielberg decise così di realizzare ciò che il grande regista di “2001: Odissea Nello Spazio” aveva solo pensato e progettato.

Il film ci parla di David, un bambino robot, che in un futuro lontano viene adottato da una famiglia che non può avere figli. Il piccolo robot si affeziona alla madre, ma nello stesso tempo capisce che il suo legame non sarà mai equiparabile a quello di un bambino vero con la propria madre. Da qui l’angosciante presa di coscienza e la consapevolezza della sofferenza che deriva dalla vita e dalle relazioni tra esseri umani. Come un moderno Pinocchio, David si sente un essere umano, anche se non lo è.

Tratto dal futuristico romanzo del 1969 di Aldiss “Supertoys Last All Summer Long”, il film segue in maniera quasi fobica le vicende del piccolo David, un emozionante Haley Joel Osment, che cerca di trovare la sua identità all’interno di una società disturbata e rumorosamente sorda. Spielberg segue il piccolo David cercando di fissare per sempre le difficili dinamiche che un bambino abbandonato è costretto a subire. Il punto di vista del regista si miscela con quello del bambino in una sospensione poetica e malinconica che ci regala una delle vicende umane più commoventi della cinematografia del regista Statunitense. Una splendida declinazione del nostro Pinocchio, che va vista per sentire nuovamente da vicino la potenza del respiro di un bambino al cospetto della propria madre, che sia colei che ci ha generati, o colei che non ci ha dato la vita ma ugualmente ci ha desiderati e fortemente amati.

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