Angioletto Castiglioni, ex deportato e antifascista oltre Busto Arsizio

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Angioletto Castiglioni

Il 13 agosto di cento anni fa nasceva Angioletto Castiglioni, ex deportato nei campi di sterminio nazisti, morto all’età di 87 anni nella sua Busto Arsizio. Testimone della barbarie di quei terribili anni, fino all’ultimo giorno, nonostante lo minasse la malattia, Castiglioni si è speso per diffondere messaggi di pace e sottolineare, soprattutto alle giovani generazioni, il valore imprescindibile della memoria. Il suo ruolo di antifascista e di superstite del lager di Flossenburg, dove fu internato, è noto in particolare in ambito locale, nel perimetro del Basso Varesotto e, più precisamente, nell’area bustese. Questo è un limite per una figura che assurge a esempio di coerenza e, diciamolo pure, di eroismo, prima ancora che di impegno civile e civico. Un limite al quale le istituzioni, col sostegno della politica e dei media, dovrebbero porre rimedio. Far conoscere a una più vasta popolazione, oltre i confini del ristretto territorio, il suo attivismo, generato dall’esperienza tragica del campo di concentramento, appare quasi un dovere rispetto a una società che va via via disperdendo molti decisivi punti di riferimento, resi opachi dall’incedere di situazioni che ne minimizzano la portata, storica e umana. Il suo lascito appartiene a tutti.

Castiglioni, oggi chiederebbe di tenere il basso profilo nel manifestare la necessità che gli sia reso un più ampio onore. Certo, il suo nome è inciso sulle lapidi nel Municipio di Busto dei cittadini benemeriti, e lo spiazzo davanti al Tempio Civico e la sala consiliare di palazzo Gilardoni sono dedicati a lui. Ma questo non basta per valorizzare il messaggio universale di una persona unica, eccezionale. La moderazione, l’umiltà, la sua cifra votata alla tolleranza gli impedirebbero di accettare qualunque elogio. Benché, sia chiaro, Angioletto non è mai stato remissivo: ha reagito con forza a chi, nel corso degli anni, lo ha aggredito verbalmente, sia in città sia, addirittura, in consiglio comunale, alle cui riunioni non è mai mancato una sola volta.

Non aveva paura. Eppure, la paura, quella vera, quella della morte che sta per aggredirti, l’aveva incontrata sia nella detenzione sia nella famigerata e criminale “marcia della morte” durante il trasferimento dei deportati da un lager a un altro. Era stato torturato, Angioletto, affinché rivelasse i nomi dei compagni antifascisti. Dalla sua bocca non uscì mai un sillaba.

Al ritorno dalla Germania, nessuno gli volle credere, tanto sembravano assurdi e inverosimili i racconti di ciò che aveva subito. Infine, decise di votare la sua vita alla testimonianza. “La banalità del male” scriveva Hannah Arendt al processo in Israele a Eichmann. Angioletto l’aveva sperimentata, la banalità del male, quella convinzione che persino la Shoah rientrasse nella ordinarietà. Sperimentandola, ne aveva subito gli effetti postumi. Uno sopra agli altri, una domanda ricorrente, un’ossessione e un forte smarrimento rispetto al destino, sensi di colpa che l’hanno accompagnato per tutta la vita: perché io sono vivo e i tanti miei compagni sono rimasti là?

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