Busto, il festival del cinema fa 20. Ora una nuova maturità

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Francis Ford Coppola a Busto Arsizio accolto da Gabriele Tosi in una precedente edizione del Baff

Dice bene Alessandro Munari, presidente di BA Film Factory intervistato da Andrea Aliverti: “E’ come se a Cannes organizzassero il festival della metallurgia”. Vero, Busto Arsizio che da vent’anni ripropone il festival del cinema pare una cosa di un altro mondo, qui, dove pragmatismo fa rima con ciminiere, lavoro e danèe, dove la cifra culturale, la più alta, sembrava stare sullo sfondo della vita sociale, torna puntuale – dal 2 al 9 aprile – l’appuntamento col cinema. Appunto, sembrava. Perché poi, sotto la dura scorza, scorre una vitalità sorprendente, la stessa che da due decenni, a primavera, sostiene, tra alti e bassi, tra diffidenze e entusiasmi, il BA Film Festival. Non è poco. Non lo è per il valore stesso della manifestazione, che se non raggiunge il grande pubblico se, per sua natura, rischia di restare in un ambito ristretto, rappresenta invece un momento qualificante per l’intera collettività, che ne gode indirettamente i rimandi e incide in modo positivo sull’immagine della città e dei suoi abitanti.

Dopo vent’anni imperversano ancora i pettegoli censori della kermesse cinematografica, quelli che a Busto non si fa e non si deve; quelli che criticano per il gusto e ne scorgono gli aspetti a loro dire antisociali, di inutilità e di presunto sperpero di denaro. Non ci va di ascoltarli di nuovo. Il Baff è invece la rappresentazione plastica di una città che, nonostante tutto, ha voglia di crescere anche e soprattutto culturalmente. Quando, vent’anni fa, Gabriele Tosi si affacciò alla redazione bustocca della Prealpina illustrando l’idea della manifestazione per chiederne il sostegno mediatico, fu un attimo schierarsi -comunque – dalla sua parte. Scettici? Come si poteva non essere scettici? Poi arrivò Roy Scheider, quello dello Squalo, e si accese una luce. Tosi non stava scherzando, e con lui coloro i quali fin da subito vi collaborarono.

Sarebbe un di più se, a questo punto, elencassimo i tanti nomi, attori, attrici, registi, sceneggiatori, maestri della fotografia, degli effetti speciali e delle colonne sonore, scrittori, insomma, artisti, ospiti dalle parti di San Giovanni. O magari dovremmo farlo, con lo scopo di certificare come, davvero, nessuno ha voluto scherzare in tutti questi anni. Se non bastasse ricordiamo la straordinaria avventura dell’Icma, la scuola di cinema intitolata a Michelangelo Antonioni, una realtà che legittima da sola il festival e conferma la bontà del progetto. Al quale ha creduto fin dall’inizio l’amministrazione civica, e, prima ancora, la Regione Lombardia, poi una serie di piccoli e grandi sponsor, tutti partecipi dell’iniziativa.

Un sforzo unanime che però non ha ancora tratto dal guscio dell’autoreferenzialità localistica il festival. Ospiti internazionali, nomi di prestigio riconosciuti in mezzo mondo, personalità, patrocinatori di livello e importanti direttori artistici non sono bastati a far compiere al BA Film Festival l’atteso salto di qualità, quasi fosse prigioniero del vorrei ma non posso. Manifestazione che sconta il limite di non essere in una località turistica, in un contesto accattivante sotto i profili storici e paesaggistici. Forse è anche per questo che la grande stampa snobba la Busto del cinema, nonostante proponga fin dall’inizio stessi appuntamenti e ospiti di simili eventi ben più noti.

Ma per il salto di qualità, cioè una nuova maturità per un suo rilancio nazionale, occorrono anche i soldi, tanti soldi, che non sono nelle disponibilità degli organizzatori. Benché, tutto sommato, ci sarebbero se le istituzioni cominciassero a investire in modo più sostanzioso di quanto non facciano già (Palazzo Gilardoni stanzia più di 150mila euro soltanto per le lampadine di Natale, meno della metà per il Baff). Certo, la crisi economica, la pandemia, ora anche la sciagura della guerra, situazioni di difficile convivenza con un festival del cinema che ha bisogno di sussidi pubblici per vivere. E per crescere. Anche se poi, come sostiene qualcuno, il festival è bello così com’è. Anzi, lo è ancora di più proprio per la sua dimensione che finisce per garantire una propria, esclusiva identità. Unica e, tanto per tirarcela un po’, addirittura inimitabile.

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