Coen Porisini: «Varese città universitaria e digitale non è più solo un sogno»

Varese Coen Porisini

VARESE – In pochi, forse nessuno, si aspettavano la sua candidatura. «Ma credo che questo sia il momento giusto per dare il mio contributo a costruire la Varese del domani». Chi parla è Alberto Coen Porisini, professore di Ingegneria informatica all’Università dell’Insubria e, dal 2012 al 2018, rettore dell’ateneo varesino. E candidato alle elezioni amministrative nella lista civica del sindaco Praticittà: «Un impegno civico, a sostegno di Galimberti, che in questi anni ho potuto conoscere e apprezzare per il metodo che ha adottato nell’amministrare Varese. È simile al mio: osservare il problema, studiarlo, approfondirlo e metter in campo soluzioni».

Con Coen Porisini è quasi automatico affrontare il tema della “Varese città universitaria“. Ma non è l’unico argomento che ha spinto l’ex rettore all’impegno politico. «La mia città ha potenzialità straordinarie – dice – che ho imparato ad apprezzare con il tempo e dopo aver girato l’Italia, e non solo nel corso della mia carriera universitaria. Questo è il momento giusto per renderla ancora più attraente e dinamica. Ci sono finalmente le risorse, ma anche le idee e la voglia, dopo il Covid e anni di immobilismo, per riaccenderla e farla ripartire. Anche sotto il profilo della digitalizzazione e della smart city».

Alberto Coen Porisini, l’università dell’Insubria ha più più di vent’anni di vita. Eppure il tema di “Varese città universitaria” è tra i più dibattuti in questa campagna elettorale. Cosa significa: che la città prima non era pronta, oppure che la politica si è accorta solo ora di questa potenzialità?
«Sono processi che richiedono tempo. Non si diventa città universitaria in cinque minuti. In questi anni all’Insubria si sono laureati 30 mila giovani e molti di questi hanno continuato ad abitare e lavorare in città e in provincia. L’ateneo poi è cresciuto. E questi sono due fattori importanti per una città come Varese che, giustamente, ha l’ambizione di diventare una città universitaria».

Insomma, Varese è pronta. Ma per compiere il processo bastano maggiori servizi e strutture quali il nuovo campus, lo studentato e i futuri spazi nell’ex caserma Garibaldi? 
«Diciamo che sono importanti, ma non ci si può fermare qui. Accanto a quanto si è progettato e realizzato bisogna lavorare anche sul fronte della “promozione” dell’università, ma anche della città. Bisogna far capire che chi verrà a studiare a Varese trova un’università in grado di far vivere bene il percorso di studio e di formazione».

Questo significa quindi “aprire” l’ateneo anche a chi viene da fuori. Uno switch importante per un’università che ha ancora l’etichetta “dell’ateneo di casa”, non crede? 
«Premetto che parlo a titolo personale, poiché non voglio entrare nella visione di chi “dirige” l’Insubria. Io credo che la giusta dimensione per poter dare garanzie didattiche e formative agli studenti non debba superare di molto i 15 mila iscritti. Oltre si entra nelle dinamiche dei “mega atenei” e lo studente diventa un numero. A oggi gli studenti sono circa 13 mila, di questi circa 10 mila orbitano su Varese. I margini per crescere ci sono. È però evidente che stiamo parlando di un processo che deve coinvolgere la città. Insubria e Varese hanno le carte in regola».

La crescita dei numeri comporta anche un ragionamento sugli spazi. Tra questi c’è l’ex caserma Garibaldi. Il candidato di centrodestra Matteo Bianchi con l’idea di portare lì gli uffici comunali ha aperto un dibattito e una visione fino a oggi non contemplata. Quindi? 
«Il recupero dell’ex caserma rientra in una visione più ampia della “città universitaria” che comprende studentato e campus. Detto questo credo però che quella di Bianchi sia un’idea sbagliata. La caserma, che è un po’ il simbolo dell’immobilismo dal quale Varese è uscita, deve avere una destinazione culturale. Lo dice anche un accordo tra Regione, Insubria e Comune. Io credo che il dibattito politico si dovrebbe concentrare su come potenziare questo polo culturale, cosa metterci oltre all’Archivio del Moderno, come creare nuovi spazi espositivi. Sulla destinazione non ci devono invece essere dubbi».

Per un polo culturale che l’amministrazione difende a spada tratta ce n’è un’altro, a poche decine metri, destinato a spegnersi. La “fine” dell’Apollonio non è in contraddizione con la rinascita culturale dell’ex caserma? Tanto più che si affacciano sulla medesima piazza. Come l’università, del resto. 
«Il recupero del Politeama non era contemplato nell’accordo originale ma credo sia l’unica via percorribile per dare a Varese un teatro. Certo, in un mondo ideale forse si sarebbe potuta seguire la strada del mantenimento dell’Apollonio. È andata in un altro modo, e non per responsabilità di chi ha sottoscritto quell’accordo. Non dimentichiamo però che in questo modo si recupera un teatro, ma anche un pezzo di città».