Dopo il Covid-19, la depressione. I dati di uno studio del San Raffaele

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MILANO – La ricerca italiana continua a studiare il Coronavirus a 360 gradi per capire come combatterlo anche riguardo le conseguenze una volta che chi lo ha contratto è guarito. E in prima linea è ancora una volta l’ospedale San Raffaele che sembra aver fatto della battaglia alla pandemia, oltre che un dovere, un imperativo morale.
A tre mesi dalle dimissioni, circa un terzo dei pazienti ricoverati per Covid-19 continua a soffrire di disturbi psicopatologici come depressione, ansia, insonnia e sindrome da stress post-traumatico. La depressione, in particolare, è quella che persiste maggiormente nel tempo e la sua gravità è strettamente legata all’intensità dello stato infiammatorio sistemico che segue le forme gravi della patologia, anche per mesi dopo la guarigione. La buona notizia – viene rimarcato – è che i pazienti con queste forme depressive, risultano particolarmente responsivi, cioè rispondono bene, alle terapie psicologiche e farmacologiche a disposizione.

Sono i risultati di un nuovo studio – diffuso alla stampa – coordinato da Francesco Benedetti, psichiatra, Group leader dell’Unità di ricerca in Psichiatria e psicobiologia clinica del nosocomio e professore associato dell’’Università Vita-Salute San Raffaele, e pubblicato sulla rivista scientifica Brain, Behavior and Immunity. E’ la prosecuzione di una ricerca pubblicata dal gruppo di Benedetti ad agosto 2020, che aveva descritto per la prima volta le conseguenze psichiatriche della malattia a un mese dalle dimissioni.

Lo studio è stato condotto su 226 pazienti presi in carico dall’ambulatorio di follow-up post Covid-19 creato nel maggio 2020. L’ambulatorio prevede un percorso di controlli periodici con team multidisciplinari di medici internisti, infettivologi, neurologi, psichiatri, nefrologi e cardiologi, che si protraggono fino a 6 mesi dopo la dimissione.
Un paziente su tre soffre di un disturbo psicopatologico

Sulla base di interviste cliniche e questionari sono stati esaminati i sintomi psichiatrici appunto di 226 pazienti (149 uomini, età media di 58 anni) a distanza di 3 mesi di follow-up, cioè una fase di controllo continuo o periodico e programmato, dal trattamento ospedaliero per le forme gravi di Covid-19. Di questi, il 36% riporta sintomi di entità clinica nel questionario di auto-valutazione e il 24% rientra nei criteri Dsm-5 (per Dsm si intende il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) a seguito della visita con lo specialista per almeno un disturbo maggiori tra depressione, ansia, Ptsd (stress post-traumatico) e insonnia.

“A soffrire di più sono le donne e le persone con una precedente storia di disturbi psichiatrici, sebbene queste ultime siano anche quelle che hanno mostrato nel tempo il miglioramento maggiore, probabilmente perché hanno maggiore dimestichezza e disponibilità con le terapie, sia psicologiche sia farmacologiche – spiega Francesco Benedetti -. Ma la cosa più interessante dei dati raccolti è che confermano la stretta relazione tra risposta del sistema immunitario, stato infiammatorio e persistenza dei sintomi depressivi”.

Infiammazione post-Covid-19 e depressione persistente

Rispetto agli altri disturbi riscontrati nei pazienti (ansia, Ptsd, insonnia) – che hanno mostrato un sostanziale miglioramento nel corso dei tre mesi di follow-up, indipendentemente dal sesso e da una precedente storia psichiatrica dei soggetti – i sintomi depressivi sono risultati molto più persistenti nel tempo e in diretta correlazione con i valori dell’indice di infiammazione sistemica (SII), che può rimane elevato per mesi dopo la guarigione dall’infezione acuta. Depressione e infiammazione correlano anche con una ridotta performance neuro-cognitiva dei soggetti, che è una tipica conseguenza degli stati depressivi: parliamo di ridotte capacità di attenzione, di memoria, di coordinamento psicomotorio e di fluidità del linguaggio che persistono durante la lunga convalescenza dalla malattia e condizionano un generale rallentamento nella velocità elaborazione cognitiva.

“Sappiamo bene che chi soffre di depressione maggiore presenta livelli più alti di citochine infiammatorie nel sangue, indipendentemente dall’avere avuto infezioni o malattie del sistema immunitario, e sappiamo che questo stato infiammatorio si associa alla riduzione dell’attività di alcuni neurotrasmettitori essenziali per il controllo delle emozioni, come la serotonina; sappiamo d’altra parte anche che forti stati infiammatori – anche in conseguenza a infezioni virali e batteriche – aumentano il rischio di episodi depressivi – sottolinea professor Benedetti -. Il Covid-19 è il paradigma di questo fenomeno e un’ulteriore conferma di decenni di ricerca in questo campo: se l’infiammazione non recede, nei mesi successivi alla malattia acuta può svilupparsi un episodio depressivo”.

Lo studio, per fortuna, dà anche un messaggio positivo alle persone che hanno affrontato una forma grave di Covid-19 e che adesso soffrono di depressione. “Anche grazie al fatto che iniziamo a comprendere i meccanismi alla base di questi disturbi, le terapie a disposizione – psicologiche e farmacologiche – possono essere scelte in modo accurato e personalizzato, e risultano quindi particolarmente efficaci”, conclude Benedetti

Angela Bruno

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