Elezioni lombarde e geometria popolare

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di Massimo Lodi

È improbabile il grande afflusso alle prossime regionali. Circolano disaffezione, scetticismo, indifferenza. Errore, naturalmente. Però che si giustifica per il poco mantenuto, in elezioni di livelli vari, rispetto al molto promesso. Detto questo, un’urna amministrativa è diversa da un’urna politica: qui si vota per vissute questioni territoriali. Si vota informàti della causa, ben sapendo cosa di dritto e di storto va. Si vota conoscendo il profilo dei candidati: chi sono, che han combinato, se credibili o meno, di quanto realismo provvisti e di quanta aleatorietà messaggeri. Si vota per andare al pratico e non per farsi illudere. Si vota da gente seria, speranzosa e disillusa insieme.

Un tot di banalità, direte. Certo che sì. Ma ricordare a sé stessi le antiche/solide radici in cui s’affonda, non sembra inutile: talvolta le sirene della propaganda incantano i più sfurbiti marinai della sperimentata quotidianità. E comunque, superando l’ovvio: conta il prima, conterà assai di più il dopo. Cioè: rifatta la giunta del Pirellone, scelto il presidente, schierata la nuova squadra, quale sarà il piano di gioco?

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Massimo Lodi

Eccolo, il punto. I vincitori hanno un solo modo per rendere utile a chiunque (della loro parte e di quella avversa) il successo: mettersi in sintonia con le onde municipali, le stazioni periferiche, gli ascoltatori distanti (1) dal centro di potere – e che potere – insediato nel capoluogo metropolitano, e però espressione (2) delle esigenze di tante, innumerevoli, palpitanti contiguità disposte/incrociate fra una provincia e l’altra. È l’illuminato e fecondo umanesimo, trasmesso da una generazione alla successiva, della Regione-Stato; il multiforme campanilismo che sconta difetti di bandiera, ma offre virtù d’ingegnosa laboriosità; la storica anima del lombardismo infranazionale, erede dei talenti italiani e beneficiaria del genio straniero, che ha lasciato utili depositi d’arricchimento nel Dna delle origini locali.

In sostanza: non ci può essere il buon governo di un’area che – nel nome di caratteristiche economiche, sociali, culturali eccetera – benissimo rivaleggia col resto d’Europa, senza la collaborazione concreta, reciproca, duttile, deideologizzata delle istituzioni presenti sul campo. In primis tra la Regione e i Comuni. È un rapporto funzionale da sempre allo sviluppo, e decisivo oggi, nell’epoca della massima allerta che segue pandemia, guerra, disagi, povertà. Perciò ci si aspetta l’affermazione d’un modello a ricalco dell’intesa per esempio instaurata tra Milano e Varese negli anni recenti, testimonianza di come le insegne di partito siano da ritirare di fronte ai segni del tempo. Attenzione e saggezza, equilibrio e raziocinio, inclusività e “bipartisanesimo” nell’interesse di tutti. Anche questo un sottinteso scontato, ma niente affatto lo è il suo perseguimento: ne è prova la tenacia a nazionalizzare il voto del 12-13 febbraio, il più ottuso degli angoli di visuale in una Lombardia a geometria popolare invariabile, tra un compasso dominante e l’altro.

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