Giobbe e l’enigma della sofferenza

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Ivanoe Pellerin

di Ivanoe Pellerin*

Cari amici vicini e lontani, ho partecipato all’inaugurazione al palazzo Leone da Perego a Legnano della mostra “Giobbe e l’enigma della sofferenza”, a cura di Ignacio Carbajosa, intensa, drammatica, interessante. Poiché è una mostra itinerante, credo che possiate rintracciarla sul web. Intorno a questo argomento volevo farvi parte di alcune considerazioni che mi accompagnano da oltre quarant’anni.

Inizio con il ricordo di un’intervista a un malato in gravi condizioni tratta da un libro pubblicato dal St. Oswald’s Hospice,“Ero a casa rimbecillito da un dolore acutissimo. Il dolore è andato crescendo settimana dopo settimana. Uno comincia a perdere ogni speranza, a pensare che non potrà mai più stare meglio, nemmeno un poco, che starà sempre male così. … Il dolore era così tremendo che pensavo di non poterlo sopportare più. E pregavo, ti prego, fa che sia adesso!” (Newcastle: St. Oswald’s Hospice, february 1997). Quindi potete facilmente comprendere come sia davvero difficile per un uomo commentare o solo avvicinarsi al mistero del dolore e della sofferenza. È difficile per un uomo, è più difficile per un medico che ha dedicato gran parte della sua vita a combattere il dolore, al “sedare dolorem”, diventato in tempi recenti un imperativo etico e deontologico.

Cos’è il dolore? Credo che su questo argomento, sul quale evidentemente tutti hanno esperienza, pochi abbiano le idee chiare. Mi permetto di chiarire qualche elemento. Fin da quando l’uomo è apparso sulla terra il dolore è stato oggetto di paura, di superstizione, di interesse, di studio. Nessuna definizione del dolore è mai riuscita ad essere scientificamente completa e soddisfacente. Aristotele lo definì “un’emozione opposta al piacere” e Patrick Wall, un medico grande studioso del dolore, suggerisce che il dolore debba essere considerato “uno stato di necessità” come la fame e la sete. E vedremo che è anche così.
Per primo Cartesio nel 1644 diventa l’artefice di una rivoluzione che separa l’anima del corpo e pone i fondamenti della scienza moderna. Soggetto alle leggi della natura, il dolore viene inteso per la prima volta come un segnale con il quale il corpo reagisce in autodifesa per proteggere la propria integrità. Questo concetto è oggi alla base delle attuali considerazioni neurofisiologiche della medicina del dolore.

Il dolore è davvero un campanello d’allarme. Pensate che è proprio il dolore il segnale che più frequentemente ci porta al Pronto Soccorso oppure a chiamare il nostro medico di fiducia e, in ogni caso, accende la nostra attenzione per una situazione che può mettere a repentaglio l’integrità del nostro corpo. Se il dolore non ci avvertisse del pericolo potremmo avvicinare la mano ad una fonte di calore fino all’ustione. Ugualmente ci potremmo sfregare l’occhio per la presenza di un corpo estraneo causando una lesione alla cornea. Più banalmente è il dolore addominale che ci conduce dal medico che potrebbe valutare la presenza di un’appendice infiammata e indicare l’intervento chirurgico senza il quale saremmo condannati alla peritonite, una situazione mortale.
Inoltre il dolore provoca delle risposte che hanno il compito di ridurre il danno biologico. Per esempio, le reazioni di fuga con l’allontanamento dalla sorgente del danno; le reazioni che preparano l’individuo alla difesa come l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna con la produzione degli ormoni dello stress (i nostri antenati si preparavano alla lotta o scappavano di fronte al pericolo); le reazioni mentali come le distonie e le perdite di coscienza di fronte ad un intenso dolore poiché insopportabile. Mi pare evidente che siano tutte reazioni di protezione.

Ma il dolore è sempre “amico”? Direi di no. A volte il dolore diventa un terribile e tragico nemico. Pensate al dolore cronico, cioè a quel dolore che perdura nel tempo anche dopo la guarigione della patologia che l’ha prodotto. Sanno bene di ciò che parlo coloro che soffrono di “mal di schiena”, cioè di dolore lombo-sacrale, magari dopo un intervento chirurgico che ha sì risolto il problema dell’ernia discale, ma che non ha risolto il problema funzionale, lasciando come brutta eredità proprio il dolore. E ancora coloro che hanno a che fare con una diagnosi oncologica. Non solo l’angoscia di dover affrontare la cura del temibile malanno ma anche la presenza di un dolore, il sintomo più frequente in questa situazione. E ancora, coloro che soffrono per una patologia tragica e difficile come la nevralgia trigeminale. Sono dolori trafiggenti e drammatici che corrono lungo il viso, intorno all’occhio, alla guancia o a livello dei denti. Si tratta di una “corrente a 220 V” che attraversa la faccia sia di giorno sia di notte per brevi e insopportabili periodi che si ripetono. Sempre. Davvero una situazione non solo incredibile ma anche disperante. Aggiungo a bassa voce che oggi ci sono possibili rimedi anche per queste situazioni. La medicina del dolore ha oggi raggiunto delle capacità davvero notevoli. Dico spesso che occorre avere fiducia.
Cari amici vicini e lontani, su questo argomento intendo tornare poiché vi sono molte interessanti considerazioni e notizie che non sono note.

*già direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’ospedale di Legnano

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