Il governo delle autocertificazioni. Senza una vera ripartenza

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Mentre fino a domenica 26 aprile i sondaggi davano in crescita il gradimento degli italiani nei confronti di Giuseppe Conte (66 per cento), il premier pare riservare scarsa fiducia ai suoi concittadini. Infatti, nella cosiddetta Fase 2 dell’epidemia da coronavirus, che, come sostiene Giorgia Meloni, sembra tanto la Fase 1, impone loro la quinta autocertificazione della serie. Per dirla in un altro modo, se andiamo a trovare mamma dobbiamo dichiararlo ai carabinieri. Un po’esagerato, non vi pare?

Conte giustifica il provvedimento con la necessità di evitare il “liberi tutti” o, quanto meno, di impedire che gli italiani possano credere che l’emergenza sia finita. Non è così, ne siamo tutti consapevoli. Ma il riproporre l’obbligo dell’autocertificazione per altre due settimane dopo il 4 maggio, anche per gli spostamenti nella propria città, questa volta suona come una vera, inaccettabile limitazione della libertà di movimento. Se ciò aveva un senso nella prima fase del contenimento dell’epidemia, ora è un di più a fronte di cittadini già sfiniti da due mesi di quarantena, debilitati psicologicamente e, molti, con le tasche vuote.

Ripartire a tappe, allentare le restrizioni per gradi, procedere con prudenza: siamo d’accordo, ma forse ci vorrebbe anche un po’ di coraggio da parte della politica. E di fiducia nei confronti delle persone. Una politica che si affida a task force, commissioni, comitati e esperti che si contraddicono tra loro per produrre provvedimenti che chiunque, con un minimo di buon senso e di visione rispetto al problema, potrebbe proporre.

L’ultimo Dpcm della serie, quello di domenica, è composto da decine di pagine fitte fitte, le prime tre delle quali occupate da richiami, prese d’atto e considerazioni della mole di carte sfornate in precedenza. Scarsa chiarezza, come sempre. Trionfo del burocratese, com’è normale in questo Paese. Comprendiamo il momento, non certo dei più felici per tutti noi e per il Governo. Altri esecutivi forse non avrebbero saputo fare di meglio, ma vivvaddio basterebbero quattro paragrafi per spiegare quello che si può e non si può fare. Con l’avvertenza che una ricrescita dei contagi o, peggio, dei decessi porterebbe a una nuova chiusura totale. Insomma, un richiamo preciso alla responsabilità collettiva. Il resto  finisce per confondere e, soprattutto, stimolare il senso di precarietà, di frustazione e di rabbia della gente. Silenzio sulle norme per il distanziamento su treni e mezzi pubblici, nessuna certezza per i genitori che torneranno al lavoro lasciando incostuditi i figli, prezzo imposto per le mascherine con prevedibili effetti: spariranno dal mercato. Così, per dire.

Per non parlare del versante economico. L’idea dominante è che l’Italia riparta. Ma quale Italia? Quella delle attività manufatturiere e dei cantieri, non certo quella del commercio, dei ristoranti, dei bar, dei parrucchieri e via elencando. Dovranno aspettare ancora settimane: per loro più divieti che permessi. Con le conseguenze facilmente immaginabili: una sola settimana in più di attesa, per molti piccoli imprenditori potrebbe rivelarsi esiziale. Più del virus. Ma è proprio la paura del virus a impedire al governo di introdurre regole certe, che permettano una vera ripresa. Da subito, non tra un mese. Già da oggi, con le curve dei contagi in discesa, con la possibilità di mantenere doverose restrizioni sanitarie che non impediscano però di ricominciare a lavorare davvero. Appunto, ci vuole coraggio. Che il Dpcm incasinato e prolisso presentato da Conte nell’ennesima conferenza stampa di domenica salta a piè pari, riproponendo un esecutivo pavido, che si fa scudo della necessità di procedere a piccoli passi per proteggere innanzitutto sé stesso. Intanto, in altre nazioni si è già ricominciato a correre. E abbiamo detto tutto. O forse no.

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