Insondabile Giorgetti, tra accuse di pavidità e disagio per l’addio a Draghi

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VARESE – Aspettando Giancarlo. Appunto, aspettano e sperano. Perché Giancarlo Giorgetti, atteso dai leghisti “governisti” in disaccordo con la linea tranchant del Capitano Salvini e dai tanti, sopra e giù dal Carroccio, che gli chiedono una netta cesura con chi ha dato il benservito a Mario Draghi, non pare intenzionato ad appalesarsi. Perlomeno non ora, né come vorrebbero dissidenti, sfaciacarrozze di giornata, avversari e certi giornali e giornaloni desiderosi di vedere l’enigmatico, e potente uomo di Cazzago Brabbia sbattere la porta. Come hanno fatto sulla sponda berlusconiana i ministri Mariastella Gelmini e Renato Brunetta., in netto dissenso col Cavaliere.

L’uomo, però, è di un’altra pasta. Nei momenti critici è spesso insondabile; nelle tensioni che in questo ultimi anni hanno attraversato la Lega salviniana, di lui si è sempre parlato in termini di spaccatura, scissione, divisione. Un malessere latente, forse, che è sempre rimasto sottotraccia, tenuto al coperto proprio dal diretto interessato. “La Lega è una” ha regolarmente sentenziato, chiudendo ogni polemica. Anche adesso che le tensioni potrebbero o sarebbero potute diventare un incendio alla luce delle vicende parlamentari, il laghee Giorgetti, schieratissimo al fianco del premier dimissionato, si è limitato a bonfochiare dichiarazioni del tipo: “Abbiamo discusso come si fa nei partiti seri e deciso anche nell’interesse del Paese, anche Draghi ne ha preso atto”. E gli appalusi al premier dopo il suo discorso, e l’abbraccio in Senato? “Li faccio a chi li merita”. Punto.

Una svicolata lapalissiana a parere di coloro i quali denunciano il disagio di Giorgetti rispetto alla linea di lotta del partito. Fino alla cattiveria di Dagospia che infierisce: “Il più alto esempio di pavidità politica si chiama Giancarlo Giorgetti”. Qualcuno potrebbe controbattere che si tratta invece di realismo politico, un po’ democristianuccio, di quella cifra scudocrociata che nella Prima Repubblica permetteva di tenere insieme opposte visioni anche dentro lo stesso partito. Poi, scusate, che cosa sarebbe Giorgetti senza la Lega, lui che è lì fin dagli esordi con Umberto Bossi? E che cosa diventerebbe la Lega senza Giorgetti? Non va scordato che, per il partito di Salvini, è lui lo sponsor principale del governo arcobaleno. Fedelissimo di Draghi, per il quale non ha mai nascosto stima e amicizia, mette le mani avanti rispetto a certe critiche interne che gli sono piovute addosso: “Ora diranno che è colpa mia che ho imposto alla Lega di entrare nel governo”.

Quasi una excusatio non petita, un senso di colpa, o cos’altro? La Stampa gli dedica un’articolessa con un incipit velenoso: “Non lascia la Lega, ma non sa se ricandidarsi”. E sui social c’è chi insiste: “Una volta i leghisti ce l’avevano duro”.  Può essere, benché Giorgetti avesse rassegnato le dimissioni da ministro dello Sviluppo Economico subito dopo il disastro parlamentare, poi convinto a rimanere al proprio posto fino al giorno del voto per il disbrigo delle pratiche urgenti e decisive che sono sulla sua scrivania, una su tutte: il Pnrr. Consapevole che alla fine deve prevalere, sempre e comunque, il senso di responsabilità. Al di là delle accuse di pavidità e dell’irrazionalità di chi, pensando di averlo ancora duro, manda a casa l’unico governo possibile e affidabile di questa legislatura, in un periodo drammatico per il Paese. Al di là delle speranze di chi vorrebbe Giancarlo Giorgetti a capo di una nuova Lega, meno nazione e più schierata a favore del Nord. Com’era una volta, con Bossi, prima di Salvini.

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