La sfida sanitaria e politica del ciellino Bonoldi: per Galimberti e critico con Volt

Varese Guido Bonoldi

VARESE – La sua scelta di campo ha fatto rumore. Molto rumore. Ma lui, davanti alle critiche (anche quelle amiche) ha mostrato un sorriso. Dietro al quale c’erano una profonda riflessione sul passo compiuto e la consapevolezza di aver imboccato una strada nuova. Quella della libertà di pensiero e di scelta in campo politico. Una libertà che, nell’elettorato cattolico e in particolare di Cielle, i mondi da cui proviene Guido Bonoldi, è sempre stata in qualche modo condizionata. Anzi incanalata su binari con poche possibilità di cambiare direzione.

Ma i tempi sono mutati e gli scenari sono nuovi e ancora tutti da esplorare. E forse non è un caso che sia proprio Bonoldi a essere uno degli alfieri di questo nuovo modo di approcciarsi alla politica dell’oggi. Lui che nella sua vita professionale ha “esplorato”, sempre nel mondo della Sanità e sempre fedele al suo essere cattolico, situazioni a volte complesse (tra i campesinos del Paraguay sul finire degli anni Ottanta), a volte diverse (ha lavorato nel pubblico e nel privato). Ma con il medesimo spirito: “costruire ponti”. Collegamenti che all’inizio di una nuova avventura appaiono difficili da realizzare, ma non impossibili. Un po’ come il suo recentissimo passo in politica. Che lui stesso spiega senza sottrarsi. E accompagnando le parole a un sorriso.

Guido Bonoldi, partiamo dalla sua scelta di candidarsi. Anzi di candidarsi per sostenere Davide Galimberti. Uno scossone mica da ridere per il mondo cattolico e in particolare per quello di Comunione e liberazione a cui fa riferimento. Ne era consapevole? 
«Immaginavo che la mia candidatura avrebbe suscitato sorpresa. Ma sono anche convinto che la mia scelta, condivisa anche con alcuni amici, abbia introdotto nell’ambiente cattolico e di Comunione e liberazione un fermento positivo sotto il profilo della riflessione e delle scelte politiche».

Sta dicendo che ha rotto quell’argine politico di un mondo che per anni ha trovato nel centrodestra l’interlocutore privilegiato? 
«Sto dicendo che certe scelte, oggi, non sono più obbligate. C’è più libertà. E “più libertà” significa essere anche più critici nel confronto delle proprie scelte. E quindi aumenta anche il senso di responsabilità del singolo. E tutto questo mi accompagna ogni giorno lungo il nuovo percorso. E auspico che anche chi, in questo momento ha fatto altre scelte, mantenga vivo il dialogo anche dopo le elezioni. Sia che sia stato eletto oppure no. Il bene comune per la nostra città deve rimanere la stella polare per tutti».

Qual è stata la scintilla che l’ha spinta nell’orbita Galimberti? 
«La ricchezza di idee di Lavoriamo per Varese. Un gruppo in cui Maria Chiara Gadda gioca un importante ruolo aggregatore. Una squadra che, se escludiamo Stefano Malerba, Giuseppe Pullara, Fabrizio Lovato e Giulio Moroni, è composta da persone nuove, che non hanno mai fatto politica o amministrazione e che hanno messo in campo una carica di energie positive e di idee interessanti che mi hanno convinto».

Ma nella coalizione Galimberti non ci sono solo i moderati di Lavoriamo per Varese. Come la mettiamo con Volt e i Radicali, ad esempio, che portano avanti posizioni sull’eutanasia opposte rispetto al suo mondo di riferimento? 
«Volt alla presentazione dell’ippodromo, e dopo aver accolto all’ultimo momento Mauro Gregori che per quattro anni ha “sparato” contro il sindaco, ha compiuto un fallo “da cartellino rosso”. Il loro intervento è stata una palese forzatura, su un tema divisivo e non pertinente con le elezioni amministrative. Detto questo, penso di non sbagliare se affermo che una buona parte di coloro che voteranno per Davide Galimberti, ed io per primo, non ha nessuna intenzione di firmare per un tale referendum. Lavoriamo per Varese, appunto».

Prima di scendere in campo» si è dimesso da presidente del Molina. Non era necessario, tanto che il vicepresidente del cda, ovvero Orlando Rinaldi, candidato per il Partito socialista, non l’ha fatto. Perché?
«Le dimissioni non erano un atto dovuto perché non c’è incompatibilità. Io però le ho ritenute opportune per non coinvolgere la Fondazione in una scelta di schieramento del tutto personale. Il Molina deve poter avere buoni rapporti con tutti i livelli istituzionali e non essere in alcun modo identificato con uno schieramento. Il vicepresidente ha scelto di candidarsi senza dimettersi. Anzi, per quanto ne so, senza nemmeno informare della sua scelta gli altri membri del Cda. Si tratta di sensibilità diverse. Ritengo che sarebbe stato opportuno da parte sua un passo indietro».

Il suo impegno da giovane medico tra i campesinos in Paraguay, la presidenza del Molina nel momento più difficile della Fondazione e adesso questa nuova frontiera politica. Possiamo dire che se non c’è sfida non c’è Bonoldi? 
«Le prime due sono esperienze che mi hanno fatto crescere. Con il Paraguay, ma non ne voglio parlare qui, c’è ancora oggi un legame forte. Il Molina è storia recente. Sono arrivato in una situazione complessa e mi sono dovuto occupare di cose che non conoscevo. C’erano aperti molti contenziosi e ne abbiamo risolti alcuni anche molto importanti. Come quello con Varese Alzheimer. E abbiamo ricostruito un rapporto di fiducia con la città. Infatti i varesini sono tornati a donare e a sostenere questa realtà che è un patrimonio fondamentale per Varese e il territorio».

Senza dimenticare la questione Politeama. Altra tema al centro del dibattito elettorale. E anche per questo c’è chi giudica la sua candidatura inopportuna. 
«Sgomberiamo il campo dall’equivoco. L’accordo sottoscritto tra Comune e Fondazione diventa effettivo nel momento in cui ci sarà il progetto preliminare. Questo significa che stiamo parlando di un contratto che non vincola chi andrà amministrare la città. Legare l’argomento alla mia candidatura quindi non ha alcun senso».

Un’ultima domanda. Come pensa di “mettere a sistema” la sua esperienza da medico in amministrazione, un livello istituzionale che sul tema Sanità non ha grandi poteri decisionali, ma può giocare, dopo la pandemia, un ruolo strategico sul territorio?
«E’ un tema che sento mio. Vorrei aiutare il Comune a essere interlocutore con Regione e Governo che hanno competenze in questa materia. La sfida, anche con l’arrivo dei fondi del Pnrr, è quella di dare vita alle Case di comunità, ovvero quelle che in regioni come Piemonte, Emilia Romagna e Toscana già ci sono e si chiamano Case della salute. Presidi in cui si possa dare ai cittadini risposte in campo medico e infermieristico, ma anche assistenziale. Tipo le Usca, costituite durante il Covid e che si sono rivelate importanti. Però certamente più strutturate. Riuscire a concretizzarle significherebbe rafforzare la medicina territoriale che nella fase più acuta della pandemia ha mostrato le sue debolezze».