L’ospedale che non c’è, cartolina di un’altra Lombardia

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Qualcuno potrebbe pensare che siamo a corto di argomenti e, per questo, insistiamo sulla kafkiana vicenda dell’ospedale unico ipotizzato tra Busto Arsizio e Gallarate. In verità, ci soffermiamo di nuovo sul tema specifico per una serie di ragioni, in cima alle quali c’è il grande interesse pubblico di un progetto destinato, nelle intenzioni, a migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria nel Basso Varesotto, il più popoloso della provincia, che al momento ospita nosocomi in fase di lenta e preoccupante dismissione. In seconda analisi, l’intervento risulta essere il più importante e oneroso dell’intera area varesina, che impegna la Regione per una paccata di milioni, più di cinquecento, e anima un teso confronto tra le forze politiche e non solo.

Un dibattito dai toni accesi, che vede in campo favorevoli e contrari, a seconda di singole posizioni, più o meno motivate, più o meno condivisibili. Il tutto condizionato da procedure burocratiche ingarbugliate, che non aiutano a porre un punto fermo sulla questione. La quale abbisogna di qualcuno che si assuma e abbia la responsabilità di decidere, con la necessaria fermezza che sinora non c’è stata. Cossicchè, il doveroso confronto è spesso sfociato in liti. L’ultima, quella tra il presidente della Regione, Attilio Fontana, e il sindaco di Gallarate, Andrea Cassani, proprio in concomitanza con la prima riunione del consiglio regionale, in modo che la discussione attorno al progetto dell’ospedale sia tornata d’attualità. Il risultato? Sinora, il più classico e italianissimo dei nulla di fatto.

A giustificazione dei ritardi si tira in ballo il periodo tragico del Covid e le complicazioni imposte dal Codice per gli appalti. Tutto vero, rimane però una situazione inaccettabile. A fronte di un iter istituzionale iniziato poco meno di dieci anni fa, sette, se non otto. Un periodo infinito, prossimo a scenari che non dovrebbero appartenere alla Lombardia “che lavora e che produce”, a una regione giustamente considerata “la locomotiva d’Italia”, ma che nelle sue pieghe nasconde indeterminatezze clamorose, fors’anche scellerate. Vogliamo parlare dell’incompiuta del bustocco palaghiaccio? Opera mai finita per le improvvide scelte amministrative, per l’incapacità di imprimere una svolta a un intervento avviato una quindicina di anni fa e ora simbolo dello spreco pubblico. Il rischio è che anche il nuovo ospedale finisca per rivelarsi tale, nonostante la sua irrinunciabile utilità sociale. Il sospetto è che il tirar per le lunghe sia anche dovuto alla necessità dei partiti di accontentare tutti per ottenere consenso, per poi scoprire che a votare non ci va più nessuno.

Potremmo menare il torrone sullo stesso argomento all’infinito. Ci fermiamo qui, sottolineando però che in un Paese normale, dopo sette anni, un’opera pubblica di tale rilievo e utilità sarebbe già stata inaugurata. Invece non si conosce nemmeno la data in cui aprirà il cantiere e, manco a dirlo, quando potrà entrare in funzione l’ospedale. Che per il momento, accanto allo scheletro del palaghiaccio, rappresenta la triste cartolina di un’Italia (di una regione) dominata a tratti dalla politica inconcludente, pasticciona, litigiosa e, chi più ne ha più ne metta. La speranza è che il recente rinnovo dell’esecutivo di Palazzo Lombardia e degli organismi collaterali produca effetti positivi anche e soprattutto in sede di operatività e decisioni. Che non significa per forza di cosa essere decisionisti, ma almeno trovare e privilegiare le volontà politiche in contrapposizione al tirare a campare.

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