Perché il cursus honorum in politica?

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di Luigi Patrini

Nell’ultimo mio intervento pubblicato su Malpensa24 (“Con Enrico Letta la Dc è davvero finita”, 8/6/2021) facevo riferimento all’opportunità di introdurre la pratica del “cursus honorum”, in uso presso gli antichi Romani. Ritengo opportuno ritornare sul tema, perché un amico ex-leghista mi ha mandato una interessante riflessione.

Prima di proporvela, permettete una piccola precisazione sul “cursus honorum”, letteralmente: “successione delle cariche”. A Roma, durante l’età repubblicana (509 a.C. – 27 a.C.) e nei due primi secoli dell’Impero si prevedeva un preciso ordine nella successione degli incarichi pubblici, un’età minima per assumerli, un tempo massimo per la durata in carica e quanto tempo dovesse intercorrere tra un incarico e quello successivo. La regola non fu sempre rigorosamente rispettata, me servì molto per far sì che le cariche fossero assunte generalmente da persone capaci, con esperienza pratica ed esperienza umana. C’era una logica, che oggi, in una società “aperta” e senza categorie privilegiate (a Roma c’erano patrizi, cavalieri e plebei; questi ultimi non potevano ricoprire tutte le cariche) sarebbe difficile e non giusto imporre. Come ho detto, c’era però una logica che non andrebbe trascurata, perché la mancanza di esperienza di tanti deputati e senatori, ma anche di consiglieri regionali, provinciali e comunali produce effetti devastanti, sotto gli occhi di tutti. Le regole di un moderno cursus honorum dovrebbero essere interne ai partiti, imposte ed accettate con libertà, perché consentirebbero una maggior efficienza ed efficacia della politica.

L’amico ex-leghista mi ha scritto: «”Ripristinare il cursus honorum …. in parlamento vadano persone che hanno un mestiere e che abbiano fatto esperienza negli enti locali…..“. Tutto giusto. Aggiungerei che anche negli enti locali sarebbe auspicabile avere gente con un mestiere anzi forse ancora di più. Fare l’amministratore locale come mestiere rende molto fragili, vulnerabili, e pronti ad ogni compromesso che non è mediazione. Secondo me». Questo è quanto l’amico mi ha scritto in un veloce WhatsApp.

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Luigi Patrini

Condivido pienamente la sua osservazione: egli concorda che in Parlamento ci vada chi ha fatto esperienza (naturalmente “positiva e apprezzata”) negli enti locali. In effetti i ministri “tappezzeria” li vediamo tutti e tanti ne abbiamo visti in questi anni. Non solo ministri, ma sottosegretari, viceministri ed anche giovanotti e “giovanotte” simpatiche e baldanzose, pronte a recitare i loro 8-9 secondi di battute davanti alla telecamera. Ma – mi chiedo – cos’hanno fatto per meritare di essere in Parlamento a servire il popolo elettore? Di sicuro politici così ce ne sono sempre stati, ma mai tanti come in queste ultime legislature in cui ai cittadini è stato sostanzialmente impedito di esprimere preferenze vere, perché abbiamo votato liste bloccate o con il capolista già sicuro dell’elezione.

Condivido anche le ultime osservazioni dell’amico: “Fare l’amministratore locale come mestiere…” Già… : dimostrami non tanto che sai amministrare una città, perché, se non l’hai mai fatto non puoi dimostrarlo, ma dimostrami che hai un mestiere che ti consente di vivere del tuo e non lasciarmi nel sospetto che vuoi essere eletto solo per guadagnare uno stipendio, perché altrimenti dovresti iscriverti alle liste di collocamento. C’è oggi il rischio che, anche a livello locale, viste le significative indennità di carica di sindaci, assessori, presidenti del Consiglio, ci sia chi cerca di essere eletto perché sa “spararle grosse” e parlare da “tribuno della plebe”, ma in realtà non sa fare altro per guadagnarsi da vivere. Soprattutto mi pare pertinente l’osservazione più acuta: “Fare l’amministratore locale come mestiere rende molto fragili, vulnerabili, e pronti ad ogni compromesso che non è mediazione”.

L’amministratore fragile e vulnerabile è tale perché è costretto a fidarsi dei tecnici, che non sempre sono corretti: i funzionari restano, non hanno responsabilità politica, l’amministratore eletto no, deve riconquistare il consenso del popolo (o del suo “padrone”). Chi va in prima linea senza esperienza deve fidarsi di tutti, senza distinzione tra chi va ascoltato e chi è meglio non ascoltare: con i tecnici occorre avere una lunga frequentazione e difficilmente uno alla prima esperienza è capace di guadagnarsi la loro stima e il loro rispetto. Se non ha esperienza sia tecnica (che è legittimo), che umana (che viene solo con l’esperienza e l’età) è facile “imbrogliarlo”, fargli credere quel che si vuole. Il buon amministratore, sa capire di chi può fidarsi e da chi è opportuno accettare consigli e pareri: deve ascoltare tutti, avere un buon rapporto con tutti, deve saper giudicare i suoi collaboratori, soprattutto deve conquistare il loro rispetto.

Chi prende la patente, per almeno un anno non può guidare vetture di alta potenza! Mettereste un giovanotto, magari neolaureato e senza esperienza, a governare un’azienda con decine o centinaia di dipendenti? Senza esperienza si rischia di essere arroganti, di non saper accettare le critiche e a chi fa obiezioni “politiche” si risponde con l’arroganza di chi si crede padrone del mondo solo perché può mettersi una fascia tricolore, simbolo di un potere che, in realtà, va utilizzato per “servire”, solo per servire, e non per pavoneggiarsi davanti ai …sudditi!

La politica è anche l’arte della mediazione, cioè del giusto “compromesso” (da “cum + pro + mitto = mando avanti insieme ad altri) ma, attenzione, perché – come dice giustamente l’ex-leghista che mi ha scritto – “non ogni compromesso è mediazione”! Spesso, infatti, i politici scambiano il compromesso con l’inciucio!

Con la politica non si scherza! Proprio perché ne sono convinto, sono molto grato a chi mi ha suggerito lo spunto per queste considerazioni. Qualcuno le giudicherà banali e qualcuno si irriterà: pazienza! Credo sia giusto dire a voce alta quel che tanti pensano: dire la verità (o, comunque, ciò che si ritiene “vero”) è un dovere per ogni uomo e ogni donna che abbia sperimentato che solo la verità – anche quella un po’ “dolorosa” – ci rende veramente capaci di quella letizia che è tipica e inscindibile dall’esperienza di chi si sente veramente “libero”. Libero è solo chi fa con letizia ciò che ritiene vero e giusto. E non teme di confrontarsi con nessuno, perché è sempre più interessato alla verità che a difendere la sua opinione.

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