VISTO&RIVISTO Belfast, un racconto retorico e poco convincente

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di Andrea Minchella

VISTO

BELFAST, di Kenneth Branagh (Regno Unito 2021, 97 min.).

Sorprendentemente scontato e ammiccante. Sorprendentemente perché da Kenneth Branagh, forse, ci si aspettava molto, molto di più. Branagh ultimamente ha realizzato parecchi “blockbuster” e sembra aver perso la sua capacità poetica e pragmatica di raccontarci la realtà come invece ha fatto con i suoi primi lavori tratti dalle opere di Shakespeare più famose e potentemente attuali.

Questo “Belfast” è un racconto autobiografico che ci racconta la vicenda di un bambino e della sua famiglia nella Belfast della fine degli anni sessanta. La storia, di per sé, è molto interessante ed emblematica per una città che ha subito violenze e soprusi in un arco temporale quasi infinito. Il problema principale del film è come Branagh ha deciso di raccontare la storia. A partire della scelta del bianco e nero, sembra che il regista irlandese abbia avuto la necessità di arricchire la narrazione con una serie di “trovate” sceniche per addolcire e alleggerire una vicenda, in realtà, dolorosa e traumatica.

L’assenza di colore, che abbiamo visto in capolavori come “American History X”, “Roma” o “Schindler’s List”, qui ha la funzione, più che altro, di annacquare una violenza generalizzata che invece colorava di rosso sangue, spesso, le giornate della cittadina irlandese. L’assenza di colore diventa l’assenza di una presa di posizione chiara e decisa sull’assurdità delle violenze tra cattolici e protestanti che pesavano massicciamente sulla vita quotidiana degli abitanti di Belfast. Un’altra scelta discutibile è il bambino protagonista, Buddy, che sembra un personaggio di un film di Walt Disney degli anni sessanta in cui famiglie graziose e superficiali affrontavano le loro vite monotone arricchendole con fantasia e sogni colorati.

Proprio al cinema Buddy e la sua famiglia va a vedere film leggeri e rigorosamente a colori, per creare una sorta di contrapposizione tra grigia realtà e colorata immaginazione, come lo spassoso “Citty Citty Bang Bang”, in cui una famiglia affiatata, appunto, si ritrova a viaggiare su di una macchina volante. Tra il bambino protagonista del film Disney e Buddy c’è poca differenza: stessa leggerezza nell’affrontare ciò che gli accade. Ma sappiamo che un bambino che vive quello che vive Buddy non è spensierato e spassoso come, invece, Kenneth Branagh vuole farci credere a tutti i costi. La mancanza di sincerità, dunque, è forse l’errore principale che un autore può compiere nel voler raccontare qualcosa di personale ed intimo della propria vita.

Stereotipare una sofferenza rendendola una graziosa immaginetta che strizza l’occhio allo spettatore cercando anche di strappare qualche risata è un’operazione indelicata soprattutto se a compierla è un autore tanto seguito quanto influente come lo è Kenneth Branagh. La scelta, poi, degli attori sembra essere completamente staccata dalla vicenda raccontata: la madre ed il padre di Buddy sembrano due modelli piuttosto che un padre e una madre sofferenti per la vita che devono affrontare. Troppo belli, i genitori di Buddy fluttuano ininfluenti sulla vita del piccolo Buddy e sull’intera vicenda del film. I nonni del bambino, invece, risultano leggermente più convincenti anche grazie, probabilmente, alla scelta di affidare quei ruoli a due giganti delle scene come Claran Hinds e Judi Dench. Ma la loro presenza non può sopperire ad una sceneggiatura mal scritta che rimane troppo in superfice senza mai addentrarsi nell’anima a tratti indecifrabile dei protagonisti.

Le sequenze, poi, degli scontri che i protestanti portano davanti alle case dei cattolici sembrano frutto di una coreografia di un “musical”, troppo perfetta, dove ogni attore ha un percorso stabilito e chiaramente decifrabile all’interno di un più complesso movimento di comparse, mezzi, molotov e, ovviamente, della troupe del film. L’artificiosità della costruzione di queste sequenze viziano irrimediabilmente la qualità della pellicola, come la scelta della colonna sonora che tende ad alleggerire ulteriormente la complessità della vita del piccolo Buddy. Insomma, un’occasione persa di Kenneth Branagh di raccontarci qualcosa di prezioso e di intimo che lo ha segnato sin da piccolo per tutta la sua vita.
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RIVISTO
BLOODY SUNDAY, di Paul Greengrass (Regno Unito- Irlanda 2002, 107 min.).

Greengrass non fa sconti e mette in piedi un racconto crudo e violento di una delle pagine più buie della storia inglese e dell’Irlanda.

Una narrazione puntuale e sincera in cui il confine tra vittime e carnefice si assottiglia talmente da farci perdere completamente di vista la differenza tra bene e male. Potente e, ahimè, clamorosamente attuale.

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