VISTO&RIVISTO Una storia contorta che ci toglie il respiro

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di Andrea Minchella

VISTO

L’UOMO DEL LABIRINTO, di Donato Carrisi (Italia 2019, 130 min.).

Enigmatico. Troppo. Cinematografico. Troppo. L’apprezzabile sforzo di Donato Carrisi di iniettare nella cinematografia italiana un po’ di elementi internazionali, americani e nord europei soprattutto, per tentare di dar vita ad un genere nuovo, anche per la scelta di innovativi elementi narrativi e tematici, viene smorzato da alcuni difetti strutturali che certamente possono essere perdonati se si considera questo “L’Uomo del Labirinto” come il primo vero esperimento cinematografico del giallista italiano. Uno dei punti deboli più evidenti è, certamente, la decisione del regista/scrittore di realizzare un film ad esclusivo appannaggio dei suoi fedeli lettori. Se questa scelta, da una parte, è un prezioso atto d’amore di Carrisi nei confronti di chi l’ha reso famoso in tutto il mondo, dall’altra, però, rende l’intero racconto e le sue dinamiche interne troppo criptiche per chi non ha mai sfogliato un “thriller” dello scrittore pugliese.

Il film, comunque, riesce a stupire e sorprendere: la storia è avvincente e la sceneggiatura segue perfettamente le vicende intricate di Genko, un quasi perfetto Servillo, e del dr. Green, un Dustin Hoffman bravissimo ma che nulla di innovativo apporta al suo diabolico personaggio. In una costruzione molto artificiosa, a volte eccessiva e quasi fumettistica, il detective privato Bruno Genko rimane un importante e necessario elemento umano che rende l’intera vicenda, senza una precisa collocazione temporale né geografica, più realistica e terrena. La bravura attoriale di Servillo umanizza e rivitalizza una narrazione che a volte sembra scandita da una predominante artificiosità che sterilizza ogni rapporto tra i personaggi.

Molte le citazioni cinematografiche che Carrisi, fine osservatore e attento architetto scenico, decide di immettere nel suo progetto: da “Il Silenzio degli Innocenti” di Demme all’” horror” “Saw – L’enigmista”, fino al capolavoro di Hitchcock “Vertigo”. Insomma Carrisi ama il cinema e vuole riproporre nel suo film le scene e i richiami che più lo hanno influenzato durante la scrittura dei suoi libri.

Con il suo primo film, “La ragazza nella nebbia”, sempre tratto da un suo racconto, Donato Carrisi aveva confezionato un ottimo lavoro, regalando al pubblico un riuscito “thriller” che, anche se non avevamo letto il giallo da cui era stato tratto, potevamo apprezzare una storia interessante, raccontata con una fresca e centrata tecnica da regista “esperto”.

Con questo film Carrisi spinge l’asticella più in alto e cerca di creare un prodotto innovativo ed esclusivo. La qualità grammaticale c’è e si vede, le scelte stilistiche apportano un valore aggiunto alla pellicola: la storia, forse, in alcuni passaggi risulta esageratamente contorta, tanto da ritrovarsi, se non si è letto il libro da cui è tratto, a chiedere spiegazione agli spettatori più diligenti e più fedeli, che di Carrisi hanno letto tutta la produzione letteraria, e che ne conoscono, fino nel profondo, la natura e il percorso di una fantasia letteraria sorprendente e contorta.

Vale la pena guardare un prodotto italiano comunque di una buona qualità che rende un po’ meno assordante la sempre gigantesca invasione da parte del cinema americano.

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RIVISTO

IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI, di Jonathan Demme (The Silence of the Lambs, Stati Uniti 1991, 118 min.).

Esiste un prima e un dopo. Come avvenne quando nel 1980 uscì nelle sale “Shining” di Stanley Kubrick, anche nel 1991, con il “thriller” diretto dal gigante Jonathan Demme, l’arte cinematografica subì una rivoluzione stilistica e grammaticale senza precedenti. Tratto dal “best seller” di Thomas Harris del 1988, la pellicola viene cucita letteralmente addosso alla giovane detective dell’FBI Clarice M. Starling, una potente e struggente Jodie Foster premiata quell’anno con l’Oscar, e al criptico e inquietante dottor Hannibal Lecter, un mastodontico Anthony Hopkins anch’esso premiato dall’Academy. Il gioco psicologico che si instaura tra i due protagonisti rende l’intero progetto un profondo viaggio del regista all’interno delle paure che ognuno di noi nasconde in fondo alla nostra anima. Ad un certo punto del racconto sentiamo sulla nostra pelle addirittura i sospiri della giovane Clarice che, grazie anche alla sua capacità di introspezione, si avvicina sempre più alla cattura del terribile serial killer Buffalo Bill.

Un capolavoro che cambia le regole di raccontare una storia intima e legata agli aspetti più nascosti della psiche umana. Un capolavoro giustamente premiato nel 1992 con gli Oscar più importanti: oltre agli attori protagonisti, infatti, le statuette andarono a Demme, al film e a Ted Tally per la miglior sceneggiatura non originale.

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