VISTO&RIVISTO Una vicenda che ha cambiato i connotati dell’Italia

hammamet craxi favino amelio

di Andrea Minchella

VISTO

HAMMAMET, di Gianni Amelio (Italia 2020, 126 min.).

Estremamente potente. Incredibilmente mitografico. Gianni Amelio confeziona un drammatico viaggio dentro la solitudine e la malinconia di un uomo che ha avuto il pesante compito di rappresentare la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova stagione politica e sociale, Bettino Craxi. Lontano da qualsiasi facile giudizio morale o superficiale analisi politica, il racconto è letteralmente cucito addosso ad un Pierfrancesco Favino che scompare completamente dietro la perfetta rappresentazione che riesce a creare dell’uomo politico più controverso e contradditorio del “fine millennio”, come ci segnala all’inizio del racconto il regista. Favino, riconoscibile solo da alcune espressioni degli occhi, compie un’operazione di immedesimazione che diventa il cardine di una vicenda umana, profonda e complessa, che Amelio scrive e dirige egregiamente. Abituato a “sussurrare” certe emozioni, Amelio anche in quest’opera riesce a “sezionare” in maniera quasi chirurgica la difficile situazione in cui il politico si ritrova dopo il terremoto di “tangentopoli”, regalandoci un ritratto sincero ed umano di un uomo abbandonato e tradito. Perché il tradimento è tale in qualsiasi caso e per chiunque: anche il “cattivo della storia”, tradito dai suoi compagni, è un uomo che deve sopportare un dolore umano, forte e devastante, con il quale è sempre difficile fare i conti.

“Hammamet” è la resa dei conti, è il momento della verità, è l’opportunità di giudicare e giudicarsi. La pellicola per due ore ripercorre l’ultimo periodo che Craxi ha vissuto, tra malattia e rancori, nella residenza troppo grande e troppo vuota che è stato costretto ad abitare dopo la sua fuga dall’Italia poco prima che si chiudessero i primi processi a suo carico. Come un generale dell’America latina, Craxi vive circondato da un esercito di un paese che non ha intenzione di giudicare un uomo che, qualunque sia il punto di vista, rimane l’ultimo grande statista politico che l’Italia abbia conosciuto.

Con lui la moglie, che finalmente può respirare da vicino la presenza di un uomo sempre lontano da casa, la figlia Stefania, unico forte e prezioso presidio umano che Craxi abbia avuto fino alla fine, e alcune visite che stimolano nell’uomo politico importanti, puntuali e sofferte analisi di ciò che è stato e di ciò che sarà. Craxi si sente bersaglio di una guerra che arriva da lontano. Si sente giudicato “dalla gente, e non dal popolo”, quel popolo per cui lui sà di avere dato tutto. La sua analisi, che trascende dagli illeciti terreni, giustifica ogni mezzo necessario a svolgere l’attività politica, esclusivamente riservata agli uomini intelligenti e non mediocri.

La sua visione si scontra con la “rivoluzione di cartone” che è in atto in Italia, dove tutti, o quasi, sono colpevoli e devono essere puniti pesantemente. Nasce in questa delicata fase politica e sociale la pericolosa e dannosa tecnica della “macchina del fango”: d’ora in poi basterà una notizia su un giornale per distruggere o santificare, a seconda dei casi, una persona, il suo operato, la sua famiglia. Con il nuovo millennio tutto diventa più rapido, fulmineo, superficiale e alla portata di tutti. Con “tangentopoli” l’Italia crede di chiudere i conti con il passato una volta per tutte. Ma non sarà così.

Gli uomini osannati fino a qualche mese prima diventano i bersagli di attacchi, accuse, lanci di monetine e di ogni genere alimentare, come avveniva nell’avanspettacolo del dopo-guerra. La “gente”, come un minuzioso Craxi-Favino ci spiega, si sostituisce al popolo, e sentenzia sulle attività politiche e ideologie mischiandole con i reati che gli uomini, invece, hanno compiuto impuniti per anni. Ne deriva un caos apocalittico da cui il disilluso Craxi decide di sottrarsi assumendosi la responsabilità di infangare per sempre la sua figura politica e personale.

Un ritratto profondo e commovente che parla anche del nostro paese e dei suoi traumatici mutamenti che, ciclicamente, lo trasformano e lo proiettano verso un nuovo corso, ogni volta carico di speranza e di buoni propositi.

***

RIVISTO

IL CASO MORO, di Giuseppe Ferrara (Italia 1986, 110 min.).

Sono passati solo otto anni dal tragico episodio del rapimento e successivo omicidio di Aldo Moro, che Giuseppe Ferrara, attento e profondo autore, realizza una cruda e intensa narrazione della prigionia che cambiò per sempre i connotati del nostro paese.

Realizzato sulla traccia del bel soggetto di Katz, giornalista d’inchiesta statunitense che aveva scritto “I Giorni dell’Ira” proprio sul rapimento Moro, il film catapulta lo spettatore nei dieci metri quadrati del nascondiglio in cui, per 55 giorni, le brigate Rosse tennero ostaggio il presidente della Democrazia Cristiana, sottoponendolo ad un vero processo “politico”. La vicenda assume un tono iconografico, quasi religioso, grazie all’interpretazione asciutta e intimista di un grandioso Gian Maria Volontè, qui in una delle sue ultime leggendarie interpretazioni.

Aldo Moro-Volontè scrive e prega perché la sua prigionia possa terminare. Collabora con i suoi carcerieri che, probabilmente, non si aspettavano di ritrovarsi davanti una personalità così umana e lucida. Il Moro del racconto di Ferrara piange e sorride, parla e riflette, pensa e accusa, in una sospensione temporale che toglie il respiro. Un film ben fatto che va rivisto per la profondità e per la schiettezza con cui il regista descrive una delle pagine più scure dell’Italia contemporanea.

hammamet craxi favino amelio – MALPENSA24