A 70 anni dalla morte, rileggere Stalin per leggere il presente

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di Ivano Pellerin

Cari amici vicini e lontani, in questo agitato periodo politico che vede riaccendersi vivaci tensioni fra maggioranza e opposizione, che vede dopo molto tempo scendere in piazza a Firenze una grande moltitudine che sventola la bandiera rossa con falce e martello, che vede la nuova segretaria del PD Elly Schlein congratularsi per l’avvenimento con Giuseppe Conte e Maurizio Landini, tutti sorridenti, non è inopportuno ricordare che il 5 marzo 1953, settant’anni or sono, muore improvvisamente a Mosca Josif Stalin. Il 6 marzo, il giorno dopo, l’Unità, il giornale del partito comunista italiano, ne esalta la figura e ne piange sconsolatamente la scomparsa insieme a tutti coloro che si riconoscono in quella ideologia. Forse è bene ricordare questo passato che, alla fine, riguarda un po’ tutti.

Per un quarto di secolo (1929-1953) Iosif Stalin è stato il padrone assoluto dell’Unione Sovietica. Dall’ufficio al Cremlino o dalle dacie fuori Mosca dove spesso risiedeva, il dittatore gestiva con pugno di ferro ogni aspetto della vita sociale, sulla base di un’interpretazione estremistica e molto semplificata del marxismo. Ossessionato dall’idea di «nemici interni» pronti a tradirlo, Stalin instaurò un regime di terrore che non permise mai a nessuno dei suoi sudditi di sentirsi al sicuro. Si calcola che ben 60 milioni di persone incolpevoli abbiano subito i tragici effetti della discriminazione e repressione, fino alla pena capitale. Gli apologeti di Stalin hanno smesso di negare i crimini perpetrati sotto il suo regime ma sostengono che il Terrore aveva la sua ragion d’essere e che i milioni di persone sterminate per ordine del vozd’ (guida, capo) erano davvero i nemici del popolo.

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Ivanoe Pellerin

All’epoca per la coscienza sociale russa, con un’interpretazione radicale dell’ideologia marxista peraltro condivisa allora da alcuni “pensatori occidentali” e compresa da alcuni politici nostrani, vi erano dei postulati profondamente affermati: l’assoluta priorità degli interessi dello Stato, l’irrilevanza dell’individuo, la storia come flusso di eventi governato da leggi “superiori”. Uno Stato forte con tradizioni autoritarie, la fragilità della proprietà privata e delle istituzioni della società civile, la creazione dell’Arcipelago Gulag, spianarono la strada al sistema staliniano. È stato calcolato che nelle diverse articolazioni del Gulag, prima della guerra, si contassero circa quattro milioni di persone.

Vorrei ora ricordare anche: Holodomor o “sterminio per fame”. Si riferisce alla morte, provocata negli anni trenta dalle politiche di Stalin di milioni di ucraini. La tragedia ebbe inizio quando Stalin, tra l’autunno del 1932 e la primavera del 1933, decise la collettivizzazione agraria, costringendo i contadini (i kulaki erano forti oppositori) ad aderirvi contro la loro volontà. Questa politica innescò una gigantesca carestia che colpì varie parti dell’Unione Sovietica ma che l’Ucraina, il granaio d’Europa, subì in maniera devastante. Gli ucraini furono quelli che ne soffrirono di più le conseguenze, poiché lo sterminio dei contadini s’intrecciò con la persecuzione dell’intellighenzia ucraina. Ne scrive con ampi dettagli lo storico francese Bernard Bruneteau nel suo libro “Il secolo dei genocidi” (Il Mulino). Cari amici vicini e lontani, la storia di ieri si collega ineluttabilmente con la realtà di oggi.

Oleg Chlevnjuk, considerato il maggior esperto mondiale di Stalin e del suo tempo, si oppone ad una tendenza «giustificazionista» sfatando vari miti sul despota sovietico, da quelli celebrativi che lo dipingono come «amministratore eccelso», «stratega militare lungimirante», «vittima di ambiziosi e avidi collaboratori» agli altri, opposti, che lo vorrebbero «traditore del lascito di Lenin», o addirittura e unicamente, «criminale sadico e paranoico». L’autore, in un famoso libro “Stalin” (Mondadori, 2016), ricostruisce in dettaglio la vita di Ioseb Diugasvili (questo il vero nome di Stalin), con particolare attenzione al cammino che lo vide, oscuro combattente antizarista georgiano, al fianco di Lenin durante la Rivoluzione d’Ottobre, quindi suo unico erede al vertice del Comitato centrale del partito e, infine, alla guida dello Stato sovietico, passando per alleanze tattiche destinate a capovolgersi in feroci contese, con esiti quasi sempre cruenti. Stalin mai dimenticò una frase attribuita a Gengis Khan e da lui spesso sottolineata in un libro della propria biblioteca personale: “La tranquillità del conquistatore richiede la morte dei conquistati”.

Stalin è ricordato inevitabilmente per il tragico trattato Molotov-Ribbentrop che permise a Hitler di invadere la Polonia. E non credette al rapporto del controspionaggio del 17 giugno 1941 in cui si affermava l’imminenza dell’attacco dell’alleato tedesco. Quando ciò avvenne, subito sollecitò con grande successo l’orgoglio nazionale e lo spirito di resistenza del popolo russo e da vincitore, a Yalta, si portò via mezza Europa. È pur vero che senza l’intervento russo la guerra avrebbe avuto un altro svolgimento.

Come ha ben spiegato in una prestigiosa ricostruzione François Furet, storico francese, il comunismo è stata una straordinaria illusione che è durata quasi un secolo, dal 1917 al 1989. Ha contagiato milioni di persone in ogni parte del mondo, ma non è morto. Ancora oggi è al potere in molti paesi ed in suo nome agisce il governo di una grande potenza come la Cina.

Cari amici vicini e lontani, come ho detto, una riflessione sul passato ci consente di leggere meglio il presente. Io credo che questa rilettura farebbe un gran bene ai politici dei nostri giorni.

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