Addio a “re Giorgio”, il primo presidente eletto due volte. Quel giorno a Varese

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Marzo 2011: Giorgio Napolitano ricevuto a Palazzo Estense dall'allora sindaco Attilio Fontana

Il presidente emerito Giorgio Napolitano è morto oggi a Roma, dopo una lunga malattia. Aveva 98 anni. E’ stato il primo presidente eletto due volte, la prima nel 2006. E’ stato il presidente delle riforme a tutti i costi, anche se le bizzarrie della politica italiana non l’hanno assecondato. Attento ad ogni dettaglio, lavoratore instancabile, profondo conoscitore della vita parlamentare e delle dinamiche politiche dell’intera storia repubblicana, aveva cominciato la sua lunga carriera nel Pci, partito di cui è stato uno dei massimi esponenti. Si definiva “un pignolo”, ma durante la sua doppia presenza al Quirinale ha dovuto affrontare quello che in molti considerano il periodo più buio degli ultimi 50 anni, navigando a vista tra gli scogli di una durissima crisi economica.  E lo ha fatto con una convinzione incrollabile: che l’Italia avesse bisogno di stabilità politica. Non a caso veniva chiamato “re Giorgio”.

Noi e Napolitano: fu qui la festa

di Massimo Lodi

Era il 21 marzo 2011, centocinquant’anni dopo l’Unità d’Italia. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, venne in visita a Varese. Gli avevano detto ch’eravamo un po’ svizzeri, per via della continguità geografica: freddi e distaccati. E invece gli dimostrammo d’essere un po’ napoletani. Un po’ come lui. Incapaci di sopire l’affetto e l’entusiasmo, felici d’esternarli tutt’e due. Ne rimase sorpreso. Non perché ci giudicasse sprovvisti d’affetto ed entusiasmo. Ma perché non pensava che l’affetto e l’entusiasmo fossero tali. E poi, l’allegria. L’allegria (roba da non credere) del Nord, solitamente dipinto come intristito e grigio. Lauraà e daneé, tutto il resto non importa. E invece no. Lauraà e daneé servono per vivere, ma non si prendono tutta la vita. Tutta la vita se la prende la gioia di viverla davvero, e quel giorno Varese manifestò sino in fondo questa gioia.

Al di là dell’immaginabile, e senza bisogno di scomodare le esagerazioni della retorica, Varese abbracciò Giorgio Napolitano: idealmente e fisicamente. La folla che l’aspettava davanti al Comune, all’Università, alla Camera di commercio fece perdere tempo al Presidente con le sue premure patriottiche, e lui lo perse volentieri. Ritardò entrate e uscite nei palazzi delle istituzioni, ma era il minimo che potesse fare per non chiudersi all’anima civile dei varesini che gliel’avevano fiduciosamente aperta.

Pareva che non aspettassero altro, i varesini. Cioè l’occasione per dimostrare di quale sentimento nazionale erano/sono/siamo impastati. Un sentimento di amore verso la bandiera, di omaggio verso la storia, di rispetto verso la più alta carica dello Stato. Alta non solo perché in cima alla gerarchia fissata dalla Costituzione. Alta perché percepita come tale. E ancora più alta perché raffrontata con le bassure e le bassezze e i bassifondi della quotidianità politica. Si capì allora (forse altri, avendone avuta prima di noi l’occasione diretta, l’avevano capito da un pezzo) quanto ci mancassero il prestigio, la credibilità, il carisma, addirittura il fascino delle figure di riferimento istituzionale. Li cercavamo/cerchiamo da molte parti, il prestigio e tutto il resto: non li trovavamo/non li troviamo, e per fortuna li scoprimmo in quest’uomo (li riscopriremo in Sergio Mattarella, viva lui) con il quale ci parve d’essere imparentati a motivo del suo essere severo e semplice, autorevole e familiare, saggio e arguto, rassicurante e innovatore. Un uomo convinto che il futuro si debba costruire senza rinnegare il passato: e nella visita bosina lo volle chiaramente ricordare. Insieme con l’apprezzamento ai nostri numerosi talenti, l’ammirazione all’industriosità del nostro territorio, la condivisione d’alcune nostre inquietudini.

La gente che l’attese a lungo fuori delle sedi dei diversi poteri locali, non sapeva cosa egli stesse qui e là dicendo. Ma era come se lo sapesse, come se l’avesse sempre saputo. E gli tributò una serie d’ovazioni, intuendo la vicinanza d’un Presidente lontano solo nella forma prevista dal rapporto tra governati e governanti. Non certo nella sostanza del rapporto di comunanza tra abitanti del medesimo Paese. Dentro un’empatia così spontanea e briosa, finirono per trovare sobria ammortizzazione anche alcune naturali (naturali nel senso di prevedibili) antipatie, esibite a suon di fischi e motteggi verso il sindaco e il leghismo, allora critici sul centralismo quirinalizio. La leggerezza della nostra festa italiana volò sopra ogni grevità.

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