«Eravamo spaventati ma ce l’abbiamo fatta»: la lotta al Covid dei medici varesini

L'abbraccio tra due operatori sanitari in una delle toccanti foto della mostra aperta a Villa Mirabello

VARESE – «Eravamo spaventati, non eravamo pronti. Ci siamo isolati dalle nostre famiglie e abbiamo visto interi nuclei familiari distrutti. Ma quando abbiamo dimesso il primo paziente abbiamo capito che ce la potevamo fare». Sono le toccanti parole di Silvio Zerbi, anestesista rianimatore della Terapia Intensiva dell’Ospedale di Circolo di Varese, che insieme a due colleghi ha documentato il periodo più difficile del Covid con gli scatti “dietro le quinte” realizzati in reparto. Oggi, sabato 18 marzo, ha aperto la mostra “Intensive Care Shots, Pandemia 2020-2022” a Villa Mirabello, che raccoglie proprio quelle foto (nel video sotto gli scatti e le interviste).

La lotta al Covid in mostra

Prima dell’inaugurazione una cerimonia ufficiale al Salone Estense, aperta dal sindaco Davide Galimberti. «Il senso di allestire una mostra a distanza di tre anni che ha immortalato episodi, sensazioni ed emozioni è quello di ricordare chi non c’è più a causa del virus ma soprattutto per ringraziare chi ha consentito di salvare tantissime persone». Guido Bonoldi, consigliere comunale con delega alla sanità, ha ripercorso quei mesi ricordando il dottor Roberto Stella, presidente dell’Ordine dei Medici di Varese, primo medico scomparso per Covid nel 2020. Il commissario straordinario di Asst Sette Laghi Giuseppe Micale ha ricordato come Varese sia stata colpita soprattuto nella seconda ondata, con il record di 622 pazienti Covid ricoverati contemporaneamente. «In queste immagini siamo dentro la drammaticità. È un ricordo che dobbiamo assolutamente mantenere».

La testimonianza del dottor Zerbi

Al centro della mattinata di inaugurazione la testimonianza del dottor Silvio Zerbi (nella foto sotto), che ha realizzato le foto e curato la mostra insieme ai colleghi Davide Maraggia ed Alessandro De Martino.

Gli operatori sanitari che sono qui oggi sono vestiti normalmente, mentre tre anni fa in reparto indossavano tantissimi strati. Una vestizione completa dura circa 10 minuti ma quella era la parte facile. Per la svestizione 6-8-10 ore dopo ci voleva molto di più per il rischio di contagiarsi. Eravamo spaventati, non eravamo pronti. Non ci si doveva contagiare o sarebbe crollato tutto. Il lavoro era 100 volte più difficile ma nessuno si è mai tirato indietro. Tre anni fa oggi avevamo paura di portare il virus a casa. Molti medici e infermieri si isolarono dalle proprie famiglie e molti hanno portato i loro figli ai nonni senza sapere quando li avrebbero rivisti. I parenti dei sanitari sono stati i protagonisti nascosti degli anni pandemici. Nella seconda ondata Varese è stata la città più colpita d’Italia e c’erano decessi quotidiani in reparto. La malattia aveva spesso la meglio e non lasciava scampo. A noi toccava tra i vari oneri anche quello di informare le famiglie quando qualcuno moriva. Abbiamo visto interi nuclei familiari distrutti, storie silenziose mai apparse sui giornali. “Intensive care shots” è dedicato anche a loro. Immaginate come ci si possa sentire ad essere ricoverati in rianimazione soli, nudi, senza la possibilità di vedere i propri parenti, con una patologia nuova e acuta di cui non si ha una cura. Ma in quegli anni ci sono stati anche tre momenti belli: in primis la vicinanza della popolazione di Varese. Poi ricordo le prime videochiamate di padri e madri che richiamavano i propri figli dopo settimane o addirittura mesi di lotta tra la vita e la morte. Ricordo infine il primo paziente che siamo riusciti a dimettere. Fu incredibile: andò via tra le urla da stadio. Capimmo per la prima volta che ce la potevamo fare.

La voce del paziente

Tra le voci anche quella di Marco Fornaroli, paziente della terapia intensiva di Varese durante la terza ondata. «Sono un padre di famiglia e un lavoratore e tutto questo è stato sconvolto da quello che è successo. Ho tanti bei ricordi, ho conosciuto un sacco di persone meravigliose che sono degli angeli che mi hanno preso e riportato a casa con forza e determinazione. Ma c’è stato anche l’aspetto brutto: ho vissuto tutta la vicenda Covid nelle sue pieghe più profonde come la realtà della terapia intensiva». E di fronte a chi è ancora scettico dice: «Ho incontrato anche in ospedale persone negazioniste nella mia stessa situazione: può essere molto pericoloso sottovalutare. Io ho rischiato più volte di perdere la vita quando ero in ospedale».

La mostra

Dal Salone Estense a Villa Mirabello: qui si è svolta la seconda parte della mattinata, nel cuore della mostra fotografica. Una quarantina le foto allestite su pannelli espositivi: immagini che raccontano quei terribili momenti vissuti in corsia da tante sfaccettature diverse. Ci sono gli attimi di sconforto, quelli di stanchezza, ma anche gli abbracci e persino qualche sprazzo di gioia. Le figure dei medici e dei pazienti si uniscono in composizioni che ricordano quasi dei quadri, dalla corsa della barella fino all’arco degli “scafandri” bianchi intorno alle persone ricoverate. Fino alle prime conquiste come le videochiamate con i propri cari. Una testimonianza completa di momenti straordinari a cui il personale sanitario ha dovuto rispondere andando oltre l’ordinario. Le foto, stampate in formato A4, sono state modificate con la tecnica della graphic art: un lavoro che è durato un anno. Duplice l’obiettivo: tutelare la privacy dei pazienti e cercare di abbassare la drammaticità degli scatti, rendendole più adatte ad un pubblico giovane. La mostra sarà visitabile fino al 29 marzo dal martedì alla domenica dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 14 alle 18.

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