Il mistero degli Anasazi

REPORTAGE | Nel cuore del Colorado (Stati Uniti) sulle tracce di un popolo antico e misterioso

Nativi americani (foto di Hansuan Fabregas - Pixabay)

di Ivan Burroni

“Due strade trovai nel bosco. Io scelsi la meno battuta”. Quando Robert Frost scriveva della strada meno battuta certo usava una metafora per parlare della vita. Tuttavia, la sua affermazione risulta altrettanto efficace se spostiamo il suo pensiero al mondo reale e parliamo, per esempio, di un viaggio. La strada che scegliamo modifica a volte in modo definitivo il nostro andare. Perché dico “a volte”? Solo perché le strade spesso si riuniscono, capita di girare in tondo e infine di trovarsi al punto di partenza. Così quella volta che vidi il grande cartello che pubblicizzava una mini crociera sul lago Powell – Il secondo lago artificiale più grande d’America – preferii affidarmi al cartello più piccolo con una freccia che indicava il rafting sul Little Colorado sulle tracce degli Indiani Anasazi.

Ma chi erano gli Indiani Anasazi nessuno lo sa veramente e tutto questo perché non conoscevano la scrittura. O no? In verità, non si conosce neanche questo. Certo è che non si sono mai trovati documenti scritti, ecco perché all’inizio dei ritrovamenti archeologici si pensò fossero molto più antichi, si parlò di reperti risalenti al 6000 a.C.. Nulla di più falso! I resti più antichi, datati circa 450 a.C., sono strumenti di pietra per la caccia e la coltivazione di zucche e mais, ossa lavorate, manufatti in ceramica e particolari contenitori in vimini usati per il trasporto dei liquidi.

Le abitazioni risalenti a quel periodo sono chiamate jacal ed erano semplici pozzi supportati da pali di legno e presentano già il caratteristico buco centrale scavato nel terreno. Ben presto l’altipiano della Mesa Verde disteso tra il Colorado, lo Utah e il New Messico viene tempestato da piccoli insediamenti che, nel tempo, vanno a creare degli aggregati di abitazioni sempre più numerose e dall’architettura sempre più complessa, come quella del loro ultimo periodo del 1200-1300 d.C. In realtà, si tratta di abitazioni piuttosto semplici: quatto pareti e una finestra.

I villaggi indiani anasazi (foto di Julia Phillips – Pixabay)

I primi esploratori che scoprirono l’insediamento – due cowboy – descrissero il posto come fermo in un tempo irreale: sembrava che gli abitanti fossero appena usciti, lasciando i loro attrezzi di ogni giorno al loro posto. Eppure non c’erano letti, né mensole, dispense, né porte. L’ingresso ai diversi ambienti, costruiti all’interno del Chaco Canyon, era sempre dal tetto e le abitazioni erano quasi incastrate le une sulle altre, scavate nella parete rocciosa fino a quattro piani d’altezza e tutto l’insediamento (si è calcolato potesse contenere un migliaio di persone) aveva al suo interno ben ventitré kiva.

I kiva erano enormi strutture circolari sotterranee riservate alle cerimonie e ai culti. In  molti casi erano collegati a strutture simili a torrette dall’uso ancora sconosciuto. E’ stato trovato anche un complesso monumentale circondato da un doppio muro, forse un tempio, chiamato il Tempio del Sole. Si ritiene che gli Anasazi avessero costruito queste “caverne” per proteggersi dagli attacchi degli estranei, vista la difficoltà di accesso al canyon. Restano ancora molto misteriosi questi Anasazi con le loro abitazioni prive di porte, con le buche centrali nei kiva e con un foro in alto, nel tetto di paglia tenuto da tronchi, da cui si potevano vedere le stelle. Pare anche che avessero competenze astronomiche piuttosto precise: diverse finestre sono orientate in modo che il sole potesse illuminare delle nicchie poste nel muro durante solstizi o equinozi.

Forse assistettero all’esplosione di una supernova nel 1054, lasciandoci una probabile rappresentazione dell’evento in un misterioso petroglifo. Ma nessuna traccia che possa farci comprendere in cosa realmente consistesse questa loro capacità, né a cosa servisse,  e in che modo la loro religione fosse collegata a tutto questo. Lavoravano la terra con bravura e competenza, allevavano piccoli animali da cortile come i tacchini, sapevano realizzare archi e frecce, e praticavano il cannibalismo. Resti di ossa cotte e svuotate del midollo restano a testimoniare questa pratica, forse religiosa o, più semplicemente, dettata dalla scarsità di risorse, che in un certo momento della loro storia dovettero affrontare a causa di un periodo di siccità e grave abbassamento delle temperature.

L’accesso alle abitazioni scolpite nella roccia (foto Katy Morikawa – Pixabay)

Erano inoltre abili nella costruzione di strade, curate con estrema precisione, dall’andamento assolutamente rettilineo. Esiste anche una strada che si doppia, cioè due strade che portano, una accanto all’altra, allo stesso posto. Dettaglio molto bizzarro, se si considera che per la loro costruzione hanno demolito delle rocce e appianato dislivelli e forse ancora più straniante, il fatto che alcune di queste strade (su 300km di quelle costruite) si fermino nel bel mezzo del nulla, improvvisamente. A cosa potrà mai servire una strada se non collega due punti? Qualcosa, quindi, doveva pur esserci. Forse un luogo di culto connesso a forze della natura o a forze soprannaturali di un altro mondo o di altri mondi. A questo punto la fantasia degli studiosi si è davvero sbizzarrita, chi limitandosi più concretamente ai fatti conosciuti e chi lasciandosi forse prendere troppo la mano ha ipotizzato per loro un’origine aliena.

Neanche il nome Anasazi offre certezze. Questo è il nome con cui i Navajo chiamavano quel popolo, ma non si comprese mai se il termine significasse gli Antichi Nemici o gli Antichi Stranieri. Il mistero circonda da ogni parte questo popolo lontano anche per tutto ciò che riguarda la sua fine. Un giorno scomparvero tutti gli abitanti da quegli insediamenti  come se fossero andati, contemporaneamente, tutti via all’improvviso  e senza portare bagaglio.

Durante il rafting sul Little Colorado la guida parlava in americano nel suo accento slabbrato sulle vocali, e raccontava una quantità di cose sugli Indiani Anasazi e diverse barzellette. Inutile confessare che capii ben poco delle une e nulla delle altre, ma fu molto divertente; anche dopo aver visto gli spettacolari e inquietanti petroglifi e dopo che ci colse un acquazzone nel bel mezzo del fiume. La nostra guida fu implacabile nel suo buonumore e nessuno seppe resistere al suo sorriso, neanche quando l’acqua scorreva dalla testa fino ai piedi in ammollo sul fondo dell’imbarcazione.

Il giro si concluse più a valle, dove ci aspettava la jeep e incontrammo quelli che avevano fatto la crociera sul lago Powell quasi asciutti e molto rammaricati di non aver visto nulla dalla nave con quell’acqua. Io raggelai per un momento, invidiando i loro vestiti asciutti, ma la mia strada si era incrociata con quella degli antichi Anasazi e il loro mistero mi accompagna ancora.