La testimonianza. Vita e lavoro in trincea nei reparti Covid dell’ospedale di Busto

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BUSTO ARSIZIO – «Non siamo eroi. Siamo persone come tutte le altre, che ogni giorno, prima di iniziare il turno di lavoro, mettono da parte la paura. Perché ne abbiamo, e anche tanta. E cerchiamo di fare al meglio il nostro dovere: curare e assistere i pazienti affetti da coronavirus. Anche noi sogniamo di riavere una vita normale, di poter tornare a casa, a fine turno, dai nostri figli. Stanchi ma senza l’angoscia dalla quale neppure noi siamo immuni». È questo il desiderio di chi da giorni opera in uno dei reparti Covid dell’ospedale di Busto.

Chiameremo Luca l’operatore sanitario che ha deciso di raccontare i suoi turni in ospedale, nei reparti dell’emergenza, in tempi di coronavirus. Ben più lunghi delle 7 ore e 30 che prevede il suo contratto di lavoro, «poiché qui sono saltati tutti gli equilibri ai quali eravamo abituati», spiega. È cambiato tutto: sono cambiate le squadre di lavoro, i colleghi non sono più quelli con cui si lavorava nei reparti prima dell’epidemia. Il coronavirus ha cambiato la vita di tutti «e – continua Luca – ha cambiato anche il nostro lavoro». Turni, straordinari, carichi di lavoro che sono aumentati fisicamente e psicologicamente e, al momento, trovano quale unica gratificazione la guarigione di un malato, il sostegno della gente e delle associazioni cittadine che portano generi di conforto per il personale.

La “zona sporca”

Operare in un reparto Covid non è semplice. Fin dall’inizio del turno. Che avviene nell’area filtro, ovvero la zona cuscinetto dove infermieri e operatori sociosanitari si vestono. Anzi, si bardano prima di entrare in quella che in gergo viene definita “zona sporca” ma è il reparto dove ci sono i pazienti. «E dove – continua Luca – si entra solo se tutto il corpo è protetto. Nulla, nemmeno un piccolo lembo di pelle deve restare fuori». In reparto si rimane per circa 3 ore e mezzo. Di più è umanamente impossibile resistere: il caldo, la respirazione più faticosa per via delle mascherine e la pressione della visiera sul volto rendono doppia la fatica. È necessaria una pausa, «che a volte cerchiamo di trascorrere in solitaria per staccare ed evitare di continuare a parlare del lavoro».

E poi si torna in reparto. Dove la comunicazione non è semplice, tra pazienti e operatori sanitari, «perché siamo tutti bardati, facciamo fatica a parlare e a sentire». Ma anche tra gli operatori stessi, «poiché, quando siamo in reparto e abbiamo bisogno di comunicare con l’esterno, lo facciamo con una ricetrasmittente o scrivendo sui fogli, mostrandoli poi attraverso i vetri delle porte d’ingresso». Dalla zona più blindata di un reparto Covid non esce nulla: non le scatole dei medicinali usati, non gli indumenti dei pazienti e anche le comunicazioni fanno fatica a passare.

Come il Covid ha cambiato l’ospedale

Sono 6 i reparti Covid creati in un mese all’ospedale di Busto, oltre agli Infettivi, alla Rianimazione che è stata in pratica raddoppiata e al pronto soccorso dedicato. Fuori ci sono anche le tende della Croce rossa, utilizzate per i triage dei casi sospetti così da evitare che entrino in contatto con altre persone. Il sesto reparto Covid è il 5B, creato solo qualche giorno fa e che nelle prossime ore dovrebbe più che raddoppiare i posti a disposizione. L’ospedale che cambia rende l’idea di come quella contro il coronavirus sia una guerra di trincea che si combatte giorno dopo giorno e costringe il sistema sanitario e ospedaliero a una flessibilità, anche organizzativa, enorme. Il virus ha innescato una vera e propria rivoluzione logistica. Inimmaginabile, «poiché nessuno era preparato a quanto sta accadendo – continua Luca – ma non certo per incapacità. Anzi, credo che davanti a questa grande emergenza la mia azienda sanitaria ha dimostrato di essere una grande azienda per le risposte che ha saputo mettere in campo. E che ancora sarà chiamata a dare. Qui – prosegue Luca – siamo, come dicono molti, in prima linea, ma non sappiamo cosa esattamente sta accadendo e quanto durerà. Vediamo che da un giorno all’altro l’ospedale cambia in base alle esigenze».

Pazienti e parenti

«E vediamo ogni giorno arrivare pazienti – continua Luca – li vediamo morire, aggravarsi, ma anche migliorare e guarire»; uscire dalla “zona sporca” per andare in un reparto più tranquillo, prodromo della guarigione, della battaglia vinta. «Ma fino ad allora si sta in trincea. Noi, il personale sanitario, e loro, i pazienti. Che non conosciamo e non conoscono noi. Perché arrivano anche da altri ospedali di altre province. E che nei giorni del ricovero impariamo a conoscere: entriamo in contatto con la loro paura, il loro smarrimento». Ma anche quello dei parenti che possono entrare nella zona no limits solo con una videochiamata. Alla quale a volte assistono anche medici e infermieri: «Dall’altra parte del video dello smartphone c’è chi ci chiede di guarire il marito, la moglie, il papà. A volte ci sono i figli dei ricoverati. E spesso fanno richieste, umane, alle quali non sappiamo cosa rispondere e ci sentiamo impotenti. Anche se non ci arrendiamo».

La vita nel Covid

Non c’è tempo nei reparti Covid. Le ore che passano sono scandite dalle cure, dalla presenza di medici e infermieri. Non c’è nemmeno l’ora di ricevimento parenti ad aprire in maniera virtuale una finestra sul mondo esterno. Non c’è televisione. Ci sono qualche libro e qualche rivista, che il personale infermieristico e ospedaliero porta ai pazienti. C’è qualche dolcetto che viene condiviso, il gioco delle carte e null’altro o quasi. Insomma, con poco da fare bisogna alimentare la pazienza e tenere accesa la speranza di guarire, di uscire dai reparti blindati per tornare di nuovo a vivere.

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