L’infermiera di Asst Valle Olona. «Ospedale in Fiera: choc indimenticabile»

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SARONNO – Quando Agnese De Bortoli era infermiera coordinatrice in neonatologia a Saronno tutto sembrava più semplice. Ma con l’arrivo della seconda ondata da Covid, De Bortoli si è offerta volontaria per prestare servizio all’unità di terapia intensiva dell’ospedale in Fiera di Milano, e tutto è cambiato.

Turni sfiancanti di 12 ore, senza riposo, con tute e maschere protettive che lacerano il viso, e il dolore, silenzioso e inerme, dei pazienti che lacera il cuore. «Zero contatti». E’ questo il mantra del nuovo ospedale. Nessun contatto con i pazienti, né con i famigliari. «Solo i medici possono comunicare con i parenti. Noi no. Noi assistiamo solamente, con costanza, e sforzo e tanta paura».

Con queste parole Agnese De Bortoli, infermiera dell’Ospedale di Saronno racconta la sua esperienza in uno dei più famosi, e discussi, reparti Covid della Lombardia. 

La testimonianza

«Sono le 8.20, esco dalla porta rossa e inizia il rito della svestizione.

Lentamente, gesti ripetitivi che permettono di rimuovere in sequenza ordinata tutti i dispositivi di protezione che mi hanno protetto durante la notte e finalmente esco dalla porta verde.

Da 20 giorni sono infermiera presso un modulo di Terapia Intensiva dell’Ospedale allestito in Fiera a Milano. Ho scelto un mese fa di proporre la mia candidatura alla costituzione dell’equipe dell’ASST Valle Olona da dedicare all’Ospedale in Fiera.

Non sapevo cosa comportasse, ma ero certa  che potesse essere una esperienza professionale e di vita che avrei potuto cogliere, e così ho fatto.

La prima ondata aveva determinato la mia assegnazione ai reparti Covid del mio ospedale, pertanto il mio mondo dei neonati e bambini era stato sostituito dal mondo degli adulti malati di coronavirus. Quindi, maturata questa esperienza, potevo responsabilmente mettermi a disposizione per questo progetto.

Approdata all’Ospedale in Fiera senza alcuna informazione, l’impatto è stato forte.

Una struttura fantastica, maestosa, concepita e realizzata per la funzione di Terapia Intensiva Covid, separando quindi nettamente le parti da dedicare ai pazienti e le parti “verdi”, pulite. Percorsi definiti e che non si incrociano mai.

Ogni modulo, così vengono chiamati le varie sezioni che ogni Asst allestisce, conduce e clinicamente organizza, è una struttura chiusa; io la chiamo bunker, perché è una stanza a pressione negativa, con una porta d’ingresso e una di uscita. Nulla di più. Nessuna finestra, nessun contatto con l’esterno, se non telefonico.

In questo modulo, sono ricoverati 14 pazienti. Completamente sedati e affidati alle nostre cure. Intorno a loro un brulicare di suoni e luci, allarmi, tipico delle terapie intensive. Ventilatore, monitor per i parametri cardiocircolatori, pompe siringhe, pompe volumetriche, pompe per nutrizione enterali, aspiratori. Un mondo tecnologico a supporto.

A questo “bunker ” si accede tutti completamente protetti da tutti i dispositivi necessari. Indossando tuta, maschera, visiera e 3 paia di guanti, si deve fare tutto, dall’aspirare pochi ml di farmaco in siringa, alle più pesanti manovre di pronazione dei pazienti, per permettere loro di respirare meglio.

Pazienti che non comunicano, questo è uno dei disagi che più ho percepito, nessun rapporto con loro, se non con i miei pensieri, che scrutano le mani mentre le lavo, o il viso che sbarbo pensando a quanto potrebbe criticare quell’uomo il mio modo di fare la barba… Nessun parente, nessun riferimento. I contatti con le famiglie vengono tenuti dai medici che si alternano nella zona verde. Noi no. Noi infermieri siamo dedicati all’assistenza diretta.

I turni sono prevalentemente di 12 ore. Credetemi, 12 ore di seguito, (tranne una piccola pausa per rifocillarci e cambiare la mascherina che dopo alcune ore perde la funzione protettiva) di giorno e di notte, completamente bardata, con addosso una buona quota di ansia da “prestazione” in quel mondo sconosciuto, con colleghi che provengono da diversi ospedali e da diverse esperienze, è stato un impatto emotivo e professionale molto forte!

Ma oggi esco da quella stanza, un pochino meno tesa. Dopo alcuni giorni, il corpo e la mente, imparano ad adattarsi e a percepire meno ostile quell’ambiente. Più consapevole del mio ruolo e con le colleghe esperte che ora piano piano ho conosciuto, e che pazientemente hanno saputo affiancarmi ed “addestrarmi”,  il tempo scorre in armonia.

Rimane la fatica fisica e la consapevolezza della delicatezza del mio attuale ruolo, ma sto anche iniziando ad assaporarne l’essenza. Non so per quanto tempo continuerà questa mia esperienza,  molto dipenderà dall’evoluzione della pandemia e quindi del bisogno sanitario, ma son certa che dopo la prova iniziale, porterò con me un buon ricordo.

Ciò che mi auguro è comunque quello di poter tornare presto a fare la coordinatrice della Neonatologia e Pediatria, assistere e coccolare neonati, con le mie infermiere,  il mio primario, nel mio ospedale di Saronno».

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