Separazione tra magistrati inquirenti e giudicanti: perché no

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di Adet Toni Novik*

Separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e quelli giudicanti: si tratta di una parte importante della riforma della giustizia proposta dal governo Meloni. Ecco il mio pensiero. Per sapere dove si va occorre capire da dove si viene. Devo partire da lontano. Fino agli anni 60, la magistratura era organizzata gerarchicamente. Durante il fascismo la concentrazione di tutti i poteri di indirizzo era in capo al governo, nelle mani del duce, sulla base di una concezione totalitaria dello Stato, per la quale lo Stato era l’unica organizzazione in cui si sarebbe dovuta identificare la società nazionale. Dopo la caduta del fascismo, il decreto Togliatti dispose che il PM esercitasse le sue funzioni sotto la vigilanza del Ministro della Giustizia. In quel contesto, i capi degli uffici erano onnipotenti e da loro dipendeva la carriera del magistrato e la progressione economica.

Il dissenso del giudice inferiore rispetto alla giurisprudenza della Cassazione aveva ripercussioni sui pareri dei capi necessari per la progressione. Gli elevati costi per lo studio e i bassi stipendi facevano si che i magistrati fossero per la maggior parte espressione della borghesia e dei latifondisti del Centro – Sud Italia. La giurisprudenza era sostanzialmente monolitica e allineata al potere politico. Per governare l’intera magistratura era sufficiente controllare, tramite il Ministro di giustizia, i capi degli uffici. I primi cambiamenti cominciarono a sentirsi con l’istituzione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura. Lentamente si stava creando un sistema di tutela per i magistrati inferiori.

Nel 1965 ci fu a Gardone un convegno dell’ANM in cui i giudici rivendicarono il diritto di applicare la norma conformemente allo spirito della Costituzione. Il giudice in tal modo non era solo la bocca della legge, ma partecipava con le sue decisioni alla trasformazione della società. Nel 1970 fu introdotto lo Statuto dei lavoratori e nel 1973 il nuovo processo del lavoro. Il giudice entrò nelle fabbriche, a contatto con il lavoro manuale. Ancora negli anni ’70 si vedono i primi, così detti Pretori d’assalto, che lottano nell’interesse della collettività contro l’inquinamento, l’abusivismo edilizio e le discriminazioni nel mondo del lavoro. La magistratura non è più monolitica. I giovani magistrati sono cresciuti e adesso anche loro sono capi degli uffici e sono sicuri democratici. A Milano per esempio c’è Bianchi D’Espinosa. La giurisprudenza si evolve e tocca anche il potere politico (si ricorda lo scandalo dei petroli e il processo Loocked).

I magistrati formano un corpo unico. È semplice passare da giudice a pubblico ministero e viceversa, senza che nessuno abbia di che lamentarsi, perché la comune cultura della giurisdizione fa si che il pubblico ministero che diventa giudice assuma subito il ruolo di protettore dei diritti dell’imputato, senza farsi condizionare dalla sua provenienza, e il giudice che diventa pubblico ministero porta con sé il valore della giurisdizione. Tutto cambia con la legge Castelli che pone limiti a questo passaggio, e successivamente con la Cartabia che di fatto la rende impossibile. Viene meno questo, per me, benefico scambio di funzioni.

Per effetto di queste modifiche, la separazione di fatto tra giudici e Pm c’è già, ed allora la domanda che ci si deve porre è: a che serve la modifica costituzionale? La risposta che do è semplice: serve a recidere ogni legame tra requirente e giudicante facendo sì che col tempo diventino due cose diverse. È la politica del carciofo che si mangia foglia-foglia. Tutto questo comporterà una esaltazione dei poteri del pubblico ministero e il suo avvicinamento alla polizia. Il Pm diventerà un consulente della polizia, interessato ad ottenere la condanna dell’imputato, e non più un garante dei suoi diritti. Dopo un po’ di tempo, si comincerà a dire che non può esistere un potere senza controllo e, come la polizia risponde al Ministro, così anche il pubblico ministero dovrà rispondere a qualcuno. E si ritornerà ai codici precedenti dove appunto il procuratore della repubblica dipendeva dal ministro che autorizzava le indagini. Con buona pace del principio di uguaglianza.

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Adet Toni Novik

Naturalmente, sarà il potere politico a dire quali reati perseguire e quali no. Conosco l’obiezione: ma in altri paesi… E’ vero, ma a prescindere che altri Stati (Francia) invidiano il nostro assetto giudiziario e che non esiste un sistema perfetto, va ricordato che ogni sistema, nel bene e nel male, si coordina con il popolo di riferimento ed i valori, anche tradizionali, che lo ispirano. Per esempio, in Germania non ci sono controlli sui mezzi pubblici e il cittadino compra spontaneamente il biglietto: credete che in Italia funzionerebbe? Il non rispetto delle regole basilari della convivenza qui è la costante: che ne pensate dei parcheggi in doppia fila? E delle baby gang? E della prostituzione minorile? E della corruzione? E dell’evasione fiscale?

In Inghilterra e negli Usa è vero che c’è la separazione tra giudici e Pm, ma ci sono altre differenze; per esempio, la nomina dei giudici è politica, nei processi c’è la giuria popolare, l’appello è limitato e la sentenza di primo grado è esecutiva. Tra l’esigenza di efficienza e quella di ricerca della verità in molti Stati – es. negli USA – è stata privilegiata la prima. L’appello, si dice, può portare a sentenze discordanti e il popolo sarebbe frastornato, quindi niente appello. Da noi, il sistema è imperniato sulla ricerca della verità attraverso tre gradi di giudizio e nessuno accetterebbe di mettere in discussione questo principio. Perché dico questo? In Italia, noi fortunatamente abbiamo il culto delle garanzie: nessuna prova è respinta perché costa troppo. In caso di condanna, la pena non può essere più alta perché l’imputato non ha accettato di essere giudicato velocemente (negli Usa se l’imputato non patteggia la pena diventa sproporzionatamente alta; il sistema americano è ben ricostruito nel film Il falò delle vanità).

Purtroppo, e vengo al punto, dopo il 1989 il processo penale, nel primo grado di giudizio, è diventato farraginoso e estremamente complesso. Durante le indagini il pubblico ministero gode di poteri enormi e non c’è un contrappeso adeguato. Questo sbilanciamento può portare ad una compenetrazione dei ruoli tra pm e giudice, a danno della difesa, nel senso che il giudice può essere portato ad attribuire maggiore veridicità alle prove portate dal Pm, quale organo di giustizia imparziale, rispetto a quelle del difensore, identificato nell’imputato. Il pericolo c’è e si è visto in alcuni processi, quelli più mediatici, anche se per fortuna ancora in misura ridotta. Ma questo pericolo non c’entra con la separazione tra giudici e pubblici ministeri, ed è frutto di questo codice che deliberatamente ha eliminato il controllo sull’agire del pubblico ministero creando un Gip debole.

Ed allora, inutile andare a stravolgere principi costituzionali che non si sa dove ci porterebbero. Si tocchi il processo penale rafforzando i poteri della difesa e introducendo maggiori controlli sull’agire del pubblico ministero. Non vorrei più vedere giudici con le porte chiuse e difensori lasciati fuori. Ma la mia è una opinione come tante altre, con i limiti che sono connaturati alle opinioni.

PS. Per un approfondimento gradevole consiglio la lettura di due testi di narrativa: Diario di un giudice di Dante Troisi (tempo fa ne avevo trovato una copia nella Biblioteca di Castellanza) e Storia di un pretore di Romano Canosa.

*già magistrato della Corte di Cassazione

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