A Somma arriva Bobby Solo: «Grazie a Fedez e Måneskin torna il rock»

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SOMMA LOMBARDO – «Non ho una scaletta. Quando mi fanno domande in proposito, rispondo con ironia: “No, grazie, prendo l’ascensore”». Bobby Solo, cantante della celeberrima “Una lacrima sul viso”, non fa anticipazioni sui brani in programma nella serata di giovedì 11 novembre, che alle 21 lo vedrà sul palco della Viscontina nell’ambito dei concerti “Agrimusic” organizzati da Gianfranco Skala e Aldo Pedron. «Vado a feeling: se preparo una cosa perfetta, diventa standard e quindi per me molto noiosa. Se invece canto quello che mi passa per la testa provo un’emozione, che tento di trasferire al pubblico».

Da country e blues alle canzoni latinoamericane

Ciò che ci si può aspettare dall’esibizione a Somma Lombardo è emerso parlando dei diversi album, tra cui uno di cover di Elvis eseguite in stile Johnny Cash, che Roberto Satti – questo è il vero nome del cantautore – progetta per il futuro: «Farò un disco di blues in italiano ispirandomi a Black Keys, John Lee Hooker e la band tuareg Tinariwen. È il sound che mi piace ora, a settantasei anni e mezzo, ma non disdegno di cantare pezzi da crooner come “Fly me to the moon” o “Over the rainbow”. La mia palette dal vivo comprende bluegrass, rhythm’n’blues, blues, country, canzoni napoletane con accordi jazz e latinoamericane, a cui si aggiungono i miei classici». Una varietà di scelta così ampia consente di evitare piani prestabiliti: «Io improvviso dal ‘64».

Bobby Solo, lei suonerà alla Viscontina accompagnato da un quartetto che avrà tra i suoi componenti il chitarrista Marco Manusso: per l’occasione sfoggerà uno strumento particolare, la pedal steel guitar.

Gliel’ho regalata io: nel ‘75 era mia, però all’epoca in Italia la gente rideva quando la vedeva, la musica country non era conosciuta. Non sapendo cosa farne regalai a Marco, che ha suonato con me cinque anni e poi con Francesco De Gregori e Renzo Arbore. È uno dei chitarristi di Roma con cui mi sono divertito di più in questi cinquantotto anni di carriera, che spero arrivino almeno a sessanta.
All’origine del mio repertorio c’è Elvis Presley: Carlo Stevan, primo presidente a Torino del suo fan club, e amico del colonnello Tom Parker, mi spiegò che si era ispirato al country, al blues, al rhythm’n’blues, al folk, al bluegrass e anche al crooning, perché quando aveva fatto “Are you lonesome tonight?” il modello era Dean Martin. Un’altra sua grande passione era il gospel: un genere musicale che adoro e di cui prossimamente inciderò un album. Quindici giorni fa ho fatto un concerto in questo stile in una chiesa a Firenze ed è stato un grande successo.

Può dire di più su questo disco?

Il mio sogno sarebbe coinvolgere i Neri per Caso. Oppure un quartetto africano: la musica afroamericana è gospel, l’Africa è la madre di tutto. Insieme ad alcuni musicisti del Senegal ho improvvisato a Parigi fuori dal teatro Olympia: abbiamo cantato cinque pezzi gospel in mezzo alla strada. Amo molto la musica nera: blues, rhythm’n’blues e quella brasiliana. L’obiettivo è quello, se ne parlerà a marzo.
Nel ‘67 il mio amico Tom Jones mi fece una sorpresa, venne a trovarmi a casa a mezzanotte e si mise a cantare “Green green grass of home” senza microfono. Ha presente quanto è potente sua la voce? I vetri della mia villa tremarono (ride, ndr). E lui quindici anni fa ha fatto un disco gospel.
Lo stesso Elvis quando si scaldava la voce, prima di salire sul palco a Las Vegas, faceva un’ora di gospel per divertirsi. Era il suo vero sogno; non diventare milionario, vendere e fare impazzire le donne. Il suo disco che salverei è infatti “His hand in mine”, del ‘62. A Firenze, mentre eseguivo due suoi pezzi, la title track e “If we never meet again”, mi sono commosso.

La sua canzone più famosa è “Una lacrima sul viso” che, per quanto riguarda i diritti d’autore che le spettavano, ha avuto una storia tormentata.

È successo a causa del direttore artistico della Ricordi. Nel settembre ‘63 firmai con Mogol il bollettino Siae e nel ‘64 la cantai in playback, perché mi ero emozionato. Avevano sentito odore di soldi e mi fecero una truffa. Mi dissero: «Hai diciannove anni, non puoi firmare, sei troppo giovane». Invece il limite di età è di sedici, ma io non lo sapevo. Mi fecero firmare un foglio secondo cui il direttore artistico della Ricordi avrebbe incassato il denaro e me lo avrebbe dato. Tre anni dopo, parlando con gli autori Mario Panzeri, Daniele Pace e Lorenzo Pilat, mi dissero che con i diritti di Gigliola Cinquetti avevano incassato centocinquanta milioni. A me ne avevano dati tre e mezzo: una truffa, tentai di recuperare ciò che mi spettava ma non ci sono mai riuscito.

E poi cos’è successo?

Questo direttore artistico cadde in miseria. Si era mangiato i soldi ed era alcolizzato, andò a Londra per prendere parte al programma di Alcoholics Anoynimous, in cui ti fanno disintossicare e seguire un percorso psicologico. Confessò di avermi truffato per quelli che oggi sono due milioni di euro. Gli dissero: «Per guarire non solo devi disintossicare il sangue, ma anche la mente, se hai compiuto questa azione». Attraverso l’intervento di Red Ronnie e Mogol nel ‘92 venne a restituirmi la canzone. Ma oggi rende due-tremila euro a semestre, cioè briciole; quei due milioni non li ho mai visti in vita mia. Non importa: vivo per la musica, non per i soldi. I soldi servono per vivere, ma non vivo per loro.

Lei è famoso anche per “Se piangi, se ridi”, “Domenica d’agosto” e tanti altri successi. Ma c’è qualche sua canzone che vorrebbe avesse più attenzione?

Ci sono molti lati B. Le case discografiche proponevano agli artisti, o accettavano da loro, brani commerciali; il lato B del singolo era quindi dove ci sfogavamo, proponendo ciò che ci piaceva realmente. Nel caso di “Credi a me” sul lato B c’era “In un mattino senza sole”, pezzo che considero bellissimo. Un altro è “A presto, ciao…ti amo!”, e poi c’è uno dell’’80 su “Gelosia”, “Attento al cuore, attento a lei”. Avrebbero tutti meritato di più.

Alla luce della sua passione per le canzoni della tradizione americana, come vede l’attuale panorama musicale? C’è qualche artista che preferisce?

Mi piacciono molto i Lovesick Duo, ho cantato con loro da Red Ronnie. In Italia la musica country non è mai stata molto aiutata dalle case discografiche, eccetto De Gregori che ne ha utilizzato spesso sound e colori, accompagnati dalle sue bellissime parole. Quanto a me, più diventano pesanti gli anni, più mi rivolgo alla musica degli anni ‘50-’40, a volte degli anni ‘30.
Considero il pop o musica popolare, che in Italia viene chiamata musica leggera – non so perché, non l’ho mai pesata con la bilancia – la colonna sonora dei tempi in cui si vive.
Negli ‘60 la guerra era finita da tempo, c’era voglia di vivere e di abbracciarsi, si ballavano le canzoni di Peppino Di Capri, Mina, Ornella Vanoni e Gino Paoli. Con gli anni ‘70, il Vietnam, la congiuntura, le Brigate Rosse, la strage di piazza Fontana e i vari guai sono emersi cantanti sociali meravigliosi come De Gregori, Venditti e Dalla, che dipingevano quei tempi. E nell’’80 è arrivata la voglia di discoteca, la trasgressione come “Il triangolo” cantato da Renato Zero.
Oggi ci sono rap e trap: vorrei abbracciare Fedez e ringraziarlo perché rilanciando Orietta Berti ha tirato fuori noi di una certa età, di una certa “cucciolata”. Rovazzi ha fatto lo stesso con Gianni Morandi: si può condividere la musica di oggi, di questi ragazzi, con noi della generazione anni ‘60-’70.

Lei ha cantato la versione italiana di “San Francisco” di Scott Mc Kenzie, una della canzoni simbolo del movimento hippy. Qual è la sua storia?

La risposta è quasi comica perché in origine il brano non era pensato per me, doveva cantarlo Milva che era un contralto; in pratica il baritono per le donne, ed è il motivo per cui, per fortuna, ho poi potuto interpretarlo io. Ogni decade è un film della vita, e la musica pop, “San Francisco”, “Everybody’s talkin’” e tanti altri pezzi di allora, erano la colonna sonora di quei tempi: come nel caso degli anni ‘60, in cui, per la ripresa economica, eravamo in uno stadio di felicità rappresentato da canzoni come “I watussi” di Edoardo Vianello o “Tintarella di luna” di Mina.
L’avvento del computer ha portato con sè rap e trap, che somigliano un po’ a un robot che canta; in effetti adesso ce ne sono tanti, esistono addirittura nanorobot che entrano nelle vene per pulire le placche di colesterolo. Ma grazie a Fedez, come ho detto, c’è stato un ritorno agli anni ‘60-‘70. E i Måneskin stanno avendo successo anche in America, cosa che mi fa molto piacere, con il loro glam che riporta al metal. Sta cambiando il vento, da rap e trap forse stiamo tornando al rock: in una sua versione più moderna ma è così che, nel bene e nel male, le cose si evolvono.

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