VISTO&RIVISTO Elvis, la vera protagonista è la musica

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di Andrea Minchella

VISTO

ELVIS, di Baz Luhrmann (Stai Uniti- Australia 2022, 159 min.).

Un po’ troppo. O forse troppo poco. Baz Luhrmann è forse l’unico regista che può maneggiare il potenziale iconografico, musicale, intimo, e drammatico della più grande icona moderna dello spettacolo. Elvis, oltre ad essere stato un uomo, un cantante, è stata un’immagine emblematica ed un simbolo controverso dell’America del dopo guerra. Elvis e la sua musica sono diventati presto la colonna sonora di un’America che conquistava il mondo con ogni mezzo e con ogni forma di linguaggio che l’umanità conoscesse: cinema, musica, letteratura, fumetti. La cultura americana stava invadendo il mondo, dopo che l’esercito americano, durante la seconda guerra mondiale, aveva spianato la strada. Elvis Presley, con tutte le contraddizioni che si possono racchiudere in un unico individuo, diventa mito ed epica di una nazione che può tutto, se davvero lo vuole.

Luhrmann, che non si accontenta di raccontare in maniera piatta e banale la vita di un uomo, costruisce un vero “show” in cui la musica, il colore e l’immagine diventano ingredienti fondamentali per testimoniare la grandezza assoluta di Elvis. Il risultato è buono, ma non convince pienamente. Lo stile istrionico e originale di Luhrmann si perde dietro la grandezza già esagerata del mito di Elvis. Il giovane Austin Butler, che assomiglia anche al Val Kilmer del leggendario “Top Secret” dove interpretava una sorta di Elvis Presley, riesce quasi completamente a far rivivere la potenza e la magia del re di Memphis. La sua vaga somiglianza con il re del rock è un elemento innovativo per la narrazione di un fenomeno globale e culturale, più che di un uomo, di un corpo.

L’attenzione del regista australiano cade sulle origini musicali di Elvis. L’ingrediente “afro” è qui ben spiegato grazie al racconto dei primi anni di vita, duri e difficili, del piccolo Elvis. Ascoltare di nascosto le note ipnotiche di chitarristi afro americani che accompagnavano le voci taglienti di iconiche donne nere fu per Elvis una sorta di ispirazione subconscia che generò, dentro di lui, quello spirito originale ed ipnotico che segnò per sempre il suo stile e la sua musica. Elvis era un ragazzo di provincia che acquisì un talento sovraumano, che lo rese subito un simbolo magnetico e incendiario. La musica di Elvis, e le sue esibizioni, divennero presto un generatore di energia carico di significati sessuali e rivoluzionari che si fondevano tra loro per dare vita ad uno stile unico che avrebbe influenzato la musica e la cultura per parecchi anni.

Luhrmann prende come spunto il manager di Elvis. Un “affabulatore” che proviene dal mondo del circo. Padre, manager, fratello, impresario, aguzzino, il “colonnello” Parker avrà un’influenza destabilizzante sul fragile e insicuro Elvis. Come spesso accade, la mancanza di un padre nella propria vita ci rende incompleti e pronti ad affidarci alla prima figura forte che incontriamo sul nostro percorso. Parker per Elvis fu l’intuito, la ricchezza, ma anche l’ossessione e la prigionia. Luhrmann compie probabilmente un errore troppo grande scegliendo di affidare la parte del colonnello Parker al goffo e buono per natura Tom Hanks che, anche grazie ad una ridicola pappagorgia di gommapiuma, dovrebbe incutere terrore come Parker, pare, facesse solo con lo sguardo. Ma il risultato non è all’altezza dell’intero progetto.

“Elvis” comunque è un necessario ed originale ritratto di un’icona che anche per la sua rapida discesa verso gli inferi rimane una delle storie più affascinanti e drammatiche dello “Showbusiness”. La ricostruzione di Luhrmann delle immagini di repertorio che si fondono con quelle vere, come accade per la sequenza finale in cui un irriconoscibile e straziante Elvis canta “Unchained Melody”, diventa l’architrave poetica che regge un lavoro buono ma non sorprendente come ci si poteva aspettare dal regista australiano.

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RIVISTO

AMADEUS, di Milos Forman (Stati Uniti 1984, 160/180 min.).

Il capolavoro di Forman che farà conoscere al mondo intero un Mozart “punk”, fragile e potentemente moderno. Ogni centimetro di pellicola viene elaborata come Michelangelo fece per la sua “Cappella Sistina”.

Tom Hulce e F. Murray Abraham entrano talmente nei personaggi, di Mozart e Salieri, da avere per parecchio tempo problemi ad interpretare nuovi ruoli. La musica, sublime ed angelica, avvolge la più grande storia di invidia e gelosia che sia mai stata scritta. Da rivedere perché la modernità del protagonista contagia incredibilmente l’intero straordinario lavoro di Milos Forman.

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