VISTO&RIVISTO Fragile, il sospiro affannato dell’esistenza

minchella fragile visto rivisto

di Andrea Minchella

VISTO

FRAGILE, di Jenneke Boeijink (Porcelain-, Italia- Belgio- Paesi Bassi, 2019, 95 min.).

Forse un po’ manieristico. Con qualche sbavatura di troppo, probabilmente. Però “Fragile”, misteriosamente rimasto nel cassetto per tre anni ed uscito nelle sale solo ora, è un’opera interessante che colpisce, perché l’epica della sofferenza umana è sempre un elemento magnetico che non può lasciare indifferente lo spettatore che acquista un biglietto per un film di cui si sa poco ma che, sin dal titolo, è chiaro sia un ritratto sul dolore e sulla fragilità di ogni uomo e di tutto ciò che lo riguarda.

La cineasta olandese, al suo primo lungometraggio, decide di raccontare un dramma famigliare che è in grado di scardinare violentemente ogni equilibrio, ogni certezza, trasformando la vita dei protagonisti della vicenda in un’esperienza difficile, incomprensibile e claustrofobica. Vivere la malattia di un figlio, per esempio, catapulta l’intero nucleo famigliare in una sorta di viaggio dantesco negli inferi più angusti e angoscianti di un mondo che non può capire né tanto meno aiutarti. “Fragile”, già dalla prima sequenza, mette subito a disagio lo spettatore che si ritrova spaesato in un appartamento tutto vetrato, sospeso in aria, che toglie completamente l’ossigeno alle dinamiche e alle difficili scelte che il nucleo famigliare è costretto a vivere.

Il padre Paul, la madre Anna e il figlio Thomas sembrano essere tre ingranaggi di un meccanismo tanto delicato quanto complesso e opprimente. Paul ha costruito per la moglie e il figlio una vita agiata basata sull’ avere ed accumulare beni per colmare, quasi certamente, un’esistenza con poche tracce di vita e ancor meno di calore. Le vetrate che circondano la casa proiettano le anime dei protagonisti in un vuoto ancestrale che vede il disagio e l’incomunicabilità come filo conduttore di tutta la narrazione del film. La scoperta della misteriosa malattia del piccolo Thomas diventa un potente detonatore di una situazione famigliare già molto compromessa e segnata da incomprensioni e incapacità di mettersi in comunicazione con “l’altro”, risalenti forse a prima che la malattia di Thomas si scagliasse su di loro.

Soprattutto la madre di Thomas si ritrova esclusa da tutte le dinamiche che si presentano con l’aggravarsi della malattia di Thomas, a cui nessun medico riesce a fare una chiara ed esaustiva diagnosi. Dopo una lunga serie di esami, Thomas sembra essere sano e non sembra essere affetto da nessuna patologia. I suoi scatti di violenza e la sua respirazione quasi “animalesca” rimangono per tutta la durata del film, apparentemente, un mistero a cui nessuno riesce a dare una risposta. Thomas, sempre più lontano da una vita normale e abbandonato inevitabilmente da chi lo ama, diventa una sorta di martire laico all’interno di una storia che centrifuga ogni emozione per “sputarle” con violenza in un angusto e buio spazio narrativo che, in certi momenti, sembra essere eccessivamente retorico se confrontato con la costruzione scenica e il montaggio che, invece, vengono gestiti dalla regista in modo corretto ed efficace.

Il sonoro del film dovrebbe ricever un Oscar speciale: i rumori di sottofondo, la respirazione dei protagonisti e i suoni che anche il più piccolo oggetto è in grado di produrre diventano parte integrante dell’intera narrazione. Ascoltare il respiro del bambino diventa una faccenda intima ed ancestrale, che mette letteralmente a soqquadro le viscere di ogni spettatore. Non tutti gli attori sono all’altezza della tensione dell’opera. Il bambino, certamente riesce con tutto il corpo a trasmettere l’ansia, l’angoscia e la sofferenza che il personaggio di Thomas racchiude nel suo corpo piccolo e martoriato. La brava Teresa Saponangelo apporta una necessaria dose mediterranea ad un’opera fredda e nordica. Quando, però, la vicenda si sposta nella selvaggia Puglia, che si contrappone alla esanime e minimale natura urbana della prima parte, la narrazione sembra sfibrarsi a favore di una sorta di “Passione” laica in cui la tragedia diventa una normale e scontata scelta stilistica che la regista decide di fare. Peccato.

***

RIVISTO

L’ESORCISTA, di William Friedkin (The Exorcist, Stati Uniti 1973, 132 min.).

Un film “horror” che ci racconta qualcosa di più di una bambina impossessata dal diavolo. A quasi 50 anni dalla sua uscita, il capolavoro di Friedkin sembra tratteggiare con cura l’incapacità genitoriale di accettare la diversità dei figli, le loro fragilità e, a volte, le malattie che possono deturpare irrimediabilmente gli equilibri e gli affetti di una famiglia apparentemente indissolubili.

minchella fragile visto rivisto – MALPENSA24