VISTO&RIVISTO Oggi ha ancora senso l’horror?

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di Andrea Minchella

VISTO

TALK TO ME, di Danny e Michael Philippou (Australia 2022, 95 min.).

Ha ancora senso l’horror? La risposta è sì. Assolutamente sì. Ogni forma di cinema va rispettata e contemplata. Anche se, magari, è un genere che non ci piace, il cinema, quello genuino, quello fatto con la passione e la sconfinata capacità di sognare, è una preziosa forma d’arte che ci arricchisce e ci fa visitare mondi che, altrimenti, rimarrebbero ignoti. Il problema, forse, è come viene realizzato un film “horror”. Spesso la retorica grammaticale antica e superata condiziona negativamente il risultato di progetti che magari sulla carta erano vincenti. Anche per l’”horror” la cosa importante è la voglia di stupire, da parte degli autori, e di rimanere sempre connessi con il mondo e il tempo che ci circondano.

“Talk to Me” è ben fatto. Perché viene realizzato da dei ragazzi, al loro primo cortometraggio, che non nascondono la loro freschezza e la loro bulimica voglia di rappresentare il mondo in cui vivono. E questo è molto. Perché le tante sbavature grammaticali (ma anche strutturali) si dissolvono perché il progetto si poggia su un desiderio vero e innovativo (proprio perché giovane) di raccontare una storia. Forse c’è poco di “horror” se inteso come quell’insieme di elementi terrificanti che si mettono al servizio della storia con l’unico obbiettivo di spaventare lo spettatore. “Talk to Me” è più un film inquietante che mette al centro il mondo giovanile, con le sue paure, le sue angosce e i suoi drammi, e si sviluppa attorno ad una vicenda incentrata su “teenagers” fragili e annoiati, pericolosamente attratti dallo sballo incontrollato (qui plasticamente rappresentato dalle sedute spiritiche).

I fratelli Philippou, australiani, scrivono e realizzano un interessante viaggio nella ossessiva e pericolosa voglia di molti ragazzi di superare il limite in ogni esperienza che vivono, con le conseguenze tragiche che spesso scaturiscono da quell’incoscienza. La seduta spiritica, grazie ad un monile che rappresenta una mano di una qualche veggente, diventa una sorta di esperienza mistica in cui lo spirito “chiamato in causa” si impossessa del ragazzo che lo sta invocando. Come un qualsiasi abuso di sostanze, la vittima “designata” assume comportamenti fuori controllo, mettendo a rischio la sua incolumità e quella degli altri.

“Talk to Me”, dunque, poteva cadere nella trappola del “teen-horror” banale e scontato. Ma così non è stato. Perché i due registi tengono il punto per tutta la durata del film. Forse commettono alcuni errori durante la narrazione, ma la loro smania di raccontarci una storia inserendola nella loro Australia e fra i ragazzi della loro generazione, ossessivamente “social” e maledettamente schiava dell’utilizzo dei cellulari come fossero un prolungamento del corpo, trasformano la pellicola in un buon progetto, per nulla scontato, che riesce quasi sempre a raggiungere l’obbiettivo di fare evadere il pubblico per più di un’ora e mezza dalla realtà.

Forse i due autori restano per troppo tempo in superfice. Avrebbero potuto addentrarsi con più coraggio nella profondità dell’anima, vero ed unico luogo che può realmente farci paura. Ma questo è il loro primo film, e dunque la loro strada artistica è molto lunga. Questo è il cinema indipendente, fatto dai giovani in cui alcuni adulti credono, e finanziato con budget limitati (4,5 milioni di dollari). Questo è il cinema che può dare parecchi spunti ad autori e registi che il successo ha trasformato in “prodotti commerciali” e che, spesso, faticano a ritrovare una linea narrativa potente e di nuovo sorprendente.

Come nel piano sequenza iniziale, questo film promette di fare il giro del mondo senza sosta. E già si pensa ad un prequel, che indaghi i personaggi inquietanti protagonisti proprio della scena d’apertura, che dovrebbe essere studiata ed analizzata nelle migliori scuole di cinema del mondo.

Un plauso, infine, alla capacità dei registi di inserire nel racconto le minoranze, etniche e di genere, i minori, temi delicati e riflessioni audaci con una sorprendente e invidiabile disinvoltura. Forse i giovani, rispetto all’evoluzione della società sui diritti e sulla convivenza tra diverse realtà, sono sempre un passo più avanti. E a loro che bisognerebbe guardare con più attenzione.

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RIVISTO

PARANORMAL ACTIVITY, di Oren Peli (Stati Uniti 2007, 87/ 97 min.).

Un piccolo (finto) documentario sulle attività paranormali in una casa, riprese grazie al sistema di video sorveglianza domestico, diventa un film “horror” di nuova generazione, protagonista di un successo planetario, che riscrive completamente le regole di questo genere.

Ne segue una celebre saga che, ovviamente, perde sempre più la sua forza narrativa. Il regista israeliano, che lo scrive, lo sceneggia, lo firma e lo monta, si guadagna subito un posto nell’olimpo di chi conta nel mondo del cinema. Da rivedere tutto d’un fiato. Terrificante.

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