Al voto, al voto. O forse no

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Si vota. Ma sarebbe meglio scrivere: bisognerebbe andare a votare. Nel senso che la tensione elettorale rispetto all’appuntamento con le urne per le amministrative, nei comuni che rinnovano sindaco e assemblea civica, e, in tutto il Paese, per i referendum sulla giustizia, non pare prefigurare un’entusiastica e folta partecipazione. Per dirla in chiaro, l’astensionismo è l’incognita principale dell’election day di domenica 12 giugno. Non una novità di questi ultimi anni, durante i quali l’interesse per la politica e per quanto le gira attorno è andato via via scemando. Le ragioni sono state indagate a iosa in mille altre sedi; quel che interessa ora sono gli effetti che la diserzione elettorale, se mai dovesse essere confermata, produrrà soprattutto sull’esito degli stessi referendum. Che essendo abrogativi necessitano del quorum: cinquanta per cento degli elettori più uno.

L’invito ad “andare al mare” di craxiana memoria questa volta potrebbe davvero concretizzarsi a fronte di quesiti referendari non proprio di facile accesso. Questioni tecniche, seppure importanti (perlomeno alcune di esse), ma che non scalderanno mai i cuori dei cittadini. Aborto, divorzio, nucleare erano argomenti popolari, che scuotevano le coscienze e annunciavano svolte sociali, etiche, cioè, di vita. Nel caso specifico della consultazione di domenica, presuppongono una conoscenza di meccanismi comunque complessi, ingarbugliati dalla formulazione dei quesiti sulle cinque schede, che non depongono affatto per la chiarezza. Chi li ha scritti non ha pensato alla sciura Maria, ma agli addetti ai lavori. Un motivo in più per “andare al mare”, appunto.

Tutto questo al netto della retorica sul diritto/dovere del voto, sulla democrazia che sostiene la frequentazione delle urne, sul bla bla attorno alle opportunità che la Costituzione ci offre consentendoci di esprimerci. Sullo sfondo rimane però il dubbio che i referendum nascondano fini meramente politici, che chiedano un cosa per ottenerne un’altra, cioè rafforzare, sempre sul piano politico, chi li ha promossi. Insomma, che siano una sorta di specchietto per le allodole: certi argomenti li affronti e li risolva il parlamento. Una democrazia rappresentativa vorrebbe questo.

Per il resto, nel migliaio di comuni che cambieranno o confermeranno le loro amministrazioni, i partiti, quanto meno nelle città più importanti in cu si vota, fanno le prove per le politiche e le regionali del prossimo anno. Circa nove milioni gli italiani chiamati alle urne. Dato per scontato che nei centri minori gli elettori sceglieranno anche e soprattutto in base alla conoscenza diretta dei candidati, nei capoluoghi di regione o di provincia interessati dalla consultazione (tra questi Genova, Palermo, Messina, Catanzaro, Alessandria, Como, Monza, Verona, Parma, Padova) si tratta di un mini test. Che se non implicherà sconvolgimenti per il governo Draghi, servirà per capire i nuovi orientamenti e confermare o smentire i sondaggi di questi mesi. Con un dato inequivocabile: la crescita di Fratelli d’Italia nel centrodestra. Quindi, i probabili equilibri futuri anche a sinistra, dove il Pd lavora per il famoso “campo largo” da contrapporre a Lega, Forza Italia e, di nuovo, Fratelli d’Italia.

Nel Varesotto si vota per dieci municipi. Il più significativo (è previsto l’eventuale ballottaggio) è Cassano Magnago, dove la coalizione di centrodestra si è divisa, come era già accaduto a Somma Lombardo e Luino. L’impressione, al di là dei personalismi e delle primogeniture che giustificano la spaccatura, è che i partiti, soprattutto quello di Giorgia Meloni, si vogliano contare, manifestando così la gara per la leadership locale. A determinarla saranno i cittadini. Siccome nel caso delle amministrative, a patto che non sia in corsa un solo candidato sindaco, non serve il quorum del cinquanta per cento più uno, il rischio è che si vinca o si perda anche con un numero risicato di elettori. Aspetto che dovrebbe pur significare una debolezza intrinseca dei partiti, ma che non servirà per generare riflessioni o, meglio, autocritiche. Pratiche oggi del tutto dimenticate in funzione della conquista del potere. Con o senza una maggioranza riconosciuta e ben definita.

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