Ballottaggi, la débacle del centrodestra e il caso  Cassano Magnago

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Il caso Cassano Magnago, dove i candidati del centrodestra diviso si sono disputati il ballottaggo, è l’eccezione che conferma la regola, cioè, moderati e sovranisti per vincere devono rimanere uniti. E’ il dato più eclatante e, a un tempo, risaputo che si desume dai risultati delle amministrative di giugno.  

Cassano Magnago è una località minore rispetto a città ben più importanti andate al voto in questa tornata; nel centro che ha dato i natali a Umberto Bossi conta anche la conoscenza personale degli aspiranti sindaci, le simpatie e le antipatie che raccolgono tra i cittadini; conta pure la vera o finta, di sicuro furba, presa di distanza dai partiti tradizionali che, lo ribadisce il forte e generale astensionismo, non attraggono più come un tempo. Così che Pietro Ottaviani vinca con il marchio civico, affrancato dalle segreterie politiche, sostenuto dall’uscente Nicola Poliseno che gli ha dettato la linea, procurandogli però l’appoggio di Fratelli d’Italia. Che a Cassano esultano rispetto agli sconfitti Lega e Forza Italia, schierate con Osvaldo Coghi, ma nel resto del Paese si leccano le ferite. E che ferite. La più sanguinante è a Verona, dove il partito di Giorgia Meloni perde il suo sindaco, Federico Sboarina, umiliato dell’ex calciatore Damiano Tommasi in quota centrosinistra.

Appunto, il centrosinistra ha fatto manbassa di successi al secondo turno smentendo addirittura facili pronostici favorevoli agli avversari, come a Monza, la città attorno alla quale Silvio Berlusoni si è speso in prima persona, non soltanto per aver portato in serie A la locale squadra di calcio. Poi ci sono Parma, Piacenza, Alessandria e Catanzaro: il cosiddetto e a volte dileggiato “campo largo” di Enrico Letta ha di fatto dominato. Anche senza l’apporto dei Cinque Stelle, organici alla coalizione, ma che, alle nuove debolezze elettorali per la recente scissione, sommano quelle delle amministrative, mai state in verità un loro punto di forza. Spunto di riflessione per il Partito democratico, sulla spinta dell’entusiasmo subito proiettato alle politiche del prossimo anno, decisivo banco di prova per il governo e per il futuro del Paese.

In mezzo c’è l’appuntamento con il rinnovo dell’assemblea regionale siciliana. Non proprio una passeggiata, soprattutto per il centrodestra, che litiga sulla scelta del candidato presidente. E’ soltanto una delle tante tensioni che caratterizzano lo schieramento, dilaniato nella definizione della leadership interna piuttosto che concentrato sui problemi più concreti. Giorgia Meloni punta i piedi, Matteo Salvini ha perso l’appeal di qualche anno fa, e con l’appeal ha perso tanti, troppi consensi personali e indirizzati alla Lega, Berlusconi prova la rimonta ma non è più il faro della coalizione.  Se il Pd, da vincitore, è chiamato a riflettere sul futuro del “campo largo”, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia sono obbligati a rivedere le loro strategie, definendone se possibile una comune. I segnali di queste elezioni sono inequivocabili: la vittoria a Sesto San Giovanni, che non è più la Stalingrado d’Italia, può consolare, ma certe débacle (vedi Como conquistata addirittura da un civico, Alessandro Rapinese) pesano e peseranno più del dovuto. In special modo per la Lega, che va via via sfibrandosi proprio al Nord, nelle roccaforti che la videro incontrastata signora di una stagione delle politica che non c’è più.

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