Che cos’è l’accidia che colpì il trentasettenne Dante Alighieri

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LEGNANODante si trova in una selva oscura a 37 anni, la mezza età di allora. Epoca della vita in cui si insinua il demone di mezzogiorno, così chiamavano i monaci orientali l’accidia, parola difficilmente traducibile dal greco (akedía). Evagrio il Pontico, monaco orientale del IV sec. d. C., la descrive come “atonia dell’anima”. Essa indica la situazione dello spirito il cui malessere comprende disgusto della vita, noia, scoraggiamento, pigrizia, sonnolenza, malinconia, riluttanza, tristezza e demotivazione. Giovanni Cassiano (IV-V secolo) ha trasmesso la traduzione latina di tutto questo all’Occidente, con la parola acedia.

Più tardi il Papa Gregorio Magno l’ha identificata nella sua lista dei vizi capitali con la tristitia. Evagrio scrive: “L’acedia fa sì che il sole appaia lento a muoversi o addirittura immobile, e che il giorno sembri di cinquanta ore”. È una sorta di asfissia o soffocamento dell’anima che condanna l’uomo all’infelicità portandolo a disdegnare ciò che ha: la vita di coppia, il lavoro, i rapporti sociali, sognando altro, ovviamente irraggiungibile. È il tempo in cui l’uomo è tentato di azzerare la propria vita passata: “io vorrei mollare tutto e andare via”. Dove, non si sa.

Questo causa anche molte infedeltà coniugali e separazioni improvvise, nella ricerca di una nuova vita, che spesso si rivela come “l’isola che non c’è”. È degno di nota il fatto che questo male colpisce, preferenzialmente, l’uomo nel mezzo del suo giorno, quando arriva la seconda crisi della vita dopo quella adolescenziale, la crisi tra i 40 e i 50 anni. Descrizioni analoghe le troviamo in Pascal, Baudelaire, Kierkegaard, Guardini, Bergson e Jankélévitch, nonché nelle menzioni psicologiche sui tratti della depressione. Ma come combattere questo male?

Dante l’ha fatto risalendo lentamente dal profondo della disperazione alla beatitudine della visione celeste. Concretamente si è lasciato accompagnare da una guida esperta in umanità (il poeta Virgilio) e ha esplorato vizi e virtù. Ha scorto bene come il male ripaghi con interessi chi lo compie (Inferno), ha percepito la fatica della purificazione illuminata e sostenuta dalla speranza (Purgatorio) e ha compreso che la via maestra per un’autentica umanizzazione è l’amore, unicamente l’amore (Paradiso). Non tanto l’amore semplicemente erotico-sentimentale, pur necessario tra gli umani, ma quello che si dona incondizionatamente, almeno come orizzonte, prospettiva di vita buona. Tradotto in termini più semplici: Dante sembra invitarci a formare la nostra mente, i nostri pensieri, i nostri affetti, le nostre azioni in questa direzione, senza scoraggiarci dei fallimenti, senza cedere ad una mentalità, oggi pervasiva, che privilegia l’uso strumentale dei rapporti, per fini individualistici e soggettivi.

Consigli finali. Per vincere l’accidia occorre anzitutto accettare i limiti costitutivi dell’esistenza umana. Il passare del tempo e la mortalità, l’assunzione della responsabilità della propria vita passata e delle incapacità e imperfezioni che ci abitano, la perseveranza, la pazienza (che è l’arte di vivere l’incompiuto), una vita di sane relazioni, impegnare il corpo in attività lavorative, il farsi aiutare da amici (sicuri), da un sacerdote amico, e in caso grave da uno specialista. Anche la preghiera può molto. Evagrio ricordava di esercitarsi dandosi una regola per divenire padroni di se stessi. I problemi vanno risolti oppure ottimizzati a livello personale, dislocarsi, cambiare se non strettamente necessario, non modifica la nostra situazione. Sant’Agostino ricordava che se uno non abita bene con se stesso, i problemi suoi se li porta dietro ovunque e con chiunque vada.

Monsignor Angelo Cairati

Prevosto di Legnano

Dante e Giotto, che felice congiunzione di astri nel firmamento delle arti

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