Cronaca di un disastro annunciato – Parte seconda

di Adet Toni Novik

“L’obiettività sta nel non truccare i fatti, non nel fingere di non avere opinioni o nell’avere paura di esprimerle”.

Le grandi idee camminano sulle gambe storte degli uomini. L’idea di un processo leggero è miseramente crollata di fronte alla forza della realtà. Anzi, come per i pani e i pesci, si è assistito alla proliferazione dei processi. In una sorta di partenogenesi, i processi si sdoppiano e si triplicano. In un processo con più imputati ciascuno può scegliere il rito che gli aggrada, e ciò comporta la necessità di formare nuovi fascicoli e un impegno di più giudici. Il contrario dell’efficienza. Nel corso delle indagini il Pm è il dominus incontrastato: decide insindacabilmente se iniziare il processo, con quali imputati, se richiedere l’archiviazione di un procedimento in corso, il sequestro di beni, la misura cautelare personale e di quale tipo: c’è differenza tra la richiesta della misura in carcere e dell’obbligo di dimora. Il GIP è un ectoplasma, una figura evanescente.

Intendiamoci: non è in discussione la quantità o la qualità del lavoro svolto dal GIP, che è notevole, quanto la possibilità di un reale controllo. Emesso l’atto richiesto, il GIP esce di scena e la sua incidenza sullo sviluppo del processo è irrilevante. Come viene “speso” quell’atto, con quale obiettivo, a che scopo? È una cambiale in bianco. Ma lasciare le sorti delle indagini nelle mani di un solo soggetto è pericoloso e gravido di conseguenze negative. La Costituzione ci insegna che ogni potere esige di essere bilanciato da un contropotere: il potere legislativo trova un bilanciamento in quelli esecutivo e giurisdizionale, e viceversa. Il pubblico ministero non ha un contropotere effettivo e si spiegano le anomalie del sistema italiano, le inchieste flop, l’invadenza di campo, il protagonismo, la ricerca della notorietà, l’assunzione di ruoli politici. Alla fine, il GIP diventa la foglia di fico dietro il quale nascondersi in caso di flop, tanto per poter dire che il giudice aveva condiviso la tesi accusatoria.

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Adet Toni Novik

Le cose cambiano di poco, quando il GIP assume il ruolo di GUP. L’udienza preliminare è incapace di esercitare la funzione di “filtro” che le era stata assegnata nel disegno originario del codice (così la Commissione Lattanzi: «i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio – ossia nel 63% dei casi – essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 gg. Complessivamente, l’udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento). Non poteva essere diversamente. Nel codice Rocco, il giudice istruttore sia che emetteva una sentenza di proscioglimento, spesso in disaccordo con il Pm, sia che rinviava a giudizio, doveva emettere un provvedimento motivato in cui spiegava alle parti le ragioni della sua decisione. Naturalmente, in caso di ordinanza di rinvio a giudizio, il giudice del dibattimento attraverso la motivazione, spesso sintetica, ma a volte complessa, quasi un progetto di sentenza, conosceva quali erano le prove a carico dell’imputato, ma ciò non aveva mai impedito le assoluzioni degli imputati.

Fu una improvvida opzione, frutto del pregiudizio ideologico che si dovesse evitare che il giudice dibattimentale fosse influenzato dalle opinioni del giudice istruttore, il cambiare rotta, imponendo che il decreto emesso dal GUP non fosse motivato. Con la conseguenza paradossale, che il GUP se intendeva prosciogliere era obbligato a motivare, con il rischio di essere smentito in caso di appello, se rinviava a giudizio era sufficiente affermare che gli elementi di prova necessitavano la verifica dibattimentale. Diverse ragioni, a volte insipienza, a volte carichi di lavoro eccessivi, a volte eccesso di prudenza fecero sì che, come dicono i numeri, fosse scelta la strada più semplice: il rinvio a giudizio. La lezione è che il controllo non può essere esercitato in base alla buona volontà del singolo giudice, ma deve essere imposto dal sistema. Siamo tutti colpevoli, possiamo dire parafrasando Andrè Cayatte.

Nel dibattimento, se possibile, le cose andavano anche peggio. Sempre confidando nell’illusione che al dibattimento sarebbero arrivati il 5% dei processi (come ho detto in precedenza, ne arrivò il 93%), si ritenne che il miglior giudice sarebbe stato quello “ignorante”. Non certo come capacità giuridica, ma come conoscenza degli atti del processo. Come una tavoletta di cera vergine, questo giudice avrebbe appreso i fatti direttamente e immediatamente dalla voce delle parti e avrebbe maturato la decisione senza prevenzioni colpevoliste. Facile a dirsi. Mentre con il codice Rocco il giudice aveva la piena conoscenza di tutta l’attività di indagine del Pm e era in grado di orientarsi tra quello che era utile o inutile, nel codice Vassalli nel fascicolo del dibattimento trovavano spazio pochi atti di indagine, insufficienti a capire come si fossero svolti i fatti rilevanti per il giudizio. Immaginate il venditore di automobili che, al momento di consegnare l’auto al cliente, la smonti lasciando a lui il compito di ricostruirla, senza istruzioni. Ricostruire in dibattimento fatti complessi è quanto di più difficile possa esserci. Come chiedere a qualcuno di raccontare i Promessi Sposi. L’oralità richiede tecnica, organizzazione, tempo. Nulla di esistente. Nei convegni, come nelle lezioni, c’è una soglia di attenzione che va da pochi secondi a pochi minuti. Figurarsi sentire testimoni per ore. Testimoni che, a distanza di anni, non ricordavano di aver rilasciato dichiarazioni e si limitavano a dire “Quello che so l’ho già detto prima”. Si sentiva chi c’era, se c’era, senza nessun ordine logico. Tessere di un puzzle disordinate. In un mondo contadino, le occasioni di spostamento erano rare; nella civiltà globalizzata, il teste poteva trovarsi in America o in Africa, e il maresciallo che aveva fatto le indagini, essere tornato al suo paese, da cui non aveva voglia di spostarsi per venire a riferire sulle indagini compiute. E quando alla fine arrivava, non ricordava più niente e leggeva i suoi atti.

Mi piace Lino Banfi, ma non lo vedo recitare l’Amleto. Eppure, a tutti i protagonisti del processo si chiedeva di essere Amleto. Di altre amenità evito di dire, salvo ricordare la pelle d’oca che ancora provo quando sento dire che il giudice deve avere il contatto con il testimone perché dal suo atteggiamento e contegno può capire se dice il vero o il falso. A dire il vero, non ho mai capito cosa si intendesse dire: la verità o falsità di una deposizione si desume dall’esame complessivo degli atti. C’è gente che dice il falso con naturalezza, e altra che dice il vero balbettando o tremando. Tanto vale tornare al lombrosiano e dire che chi ha gli occhi stretti è cattivo, e chi ha la bocca larga è buono. Eppure su questo assioma, si fonda il codice, e questo si trova ripetuto in dotte sentenze di Alte Corti.

L’udienza preliminare non funziona; il dibattimento è tortuoso e inefficiente, eppure si continua a mettere toppe al vestito di Arlecchino, invece di fare l’unica cosa giusta. Archiviare la filosofia di questo codice e innestarne una nuova, maturata non negli studi professorali, ma nella pratica delle aule giudiziarie.

(2 – continua)

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