Giggino, scissioni, elezioni, dimissioni mai. E un Vaffa

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“Non so voi, ma a me piace l’articolo 160 della Costituzione del Portogallo, che dice: perdono il mandato i deputati che s’iscrivono a un partito diverso da quello per cui erano stati eletti”.  A sostenere il dettato costituzionale portoghese era nientemente che Giggino Di Maio, ministro degli Esteri che, come noto, ha lasciato, assieme a una sessantina di parlamentari, il Movimento Cinque Stelle. Se abbia fatto bene oppure no, in un momento drammatico come quello attuale, con la guerra in Ucraina che proietta minacciose ombre sull’Europa, a sbattere la porta dei suoi ex amici per restare al fianco di Draghi, ciascuno ha la propria idea. Di sicuro, viste le emergenze che spuntano da ogni dove, di giorno in giorno, non è tempo di divagazioni rispetto alle posizioni del governo. Anche a costo di cadere in contraddizioni con se stessi. Però, c’è sempre un però.

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Giggino Di Maio

Ancora Di Maio, alcuni anni fa: “Se vieni eletto con i Cinque Stelle e scopri di non essere più d’accordo con la sua linea, hai tutto il diritto di cambiare forza politica. Ma ti dimetti, torni a casa e ti fai rieleggere, combattendo le tue battaglie”. E qui, se non ci fosse di mezzo la guerra, dovremmo scompisciarci dalle risate su quel “vai a casa”. Di che cosa stiamo parlando? Sapete in questa legislatura quanti parlamentari hanno fatto il cosiddetto salto della quaglia: poco meno di trecento. Mica pizza e fichi, ma un numero impressionante, alimentato in maniera consistente dalle truppe scissioniste di Giggino: in sessanta o giù di lì hanno deciso di seguirlo in “Insieme per il futuro”, che non è un partito, ma a detta del suo fondatore, cioè lo stesso ministro degli Esteri, è un movimento, un “contenitore temporaneo per unire le forze moderate”. Insomma, qualcosa, una “cosa” capace di realizzare il famoso, invocato e sognato “grande centro”, al quale lavorano in tanti e di cui, tutti, vorrebbero essere il leader. Pasticcio all’italiana? La sensazione è quella, ma è appunto una sensazione, esposta alle smentite dei fatti. Quando ci saranno, se ci saranno.

Torniamo in tema: trecento parlamentari che hanno traslocato da un gruppo a un altro, in quanti “sono andati a casa”? La risposta è fin troppo facile. Vecchio vizio gattopardesco quello di cambiare perché niente cambi. Soprattutto ora, con alle viste, tra meno di un anno, le elezioni politiche, quando, per effetto delle modifiche costituzionali avallate da un referendum, ci saranno ben 345 posti in meno in parlamento. Uscire in anticipo, senza la protezione di un partito forte e, salvo sorprese, senza una legge elettorale proporzionale, significa star fuori per sempre. Chi te lo fa fare?

A  nostra memoria, dopo qualche decennio di marciapiede giornalistico, ricordiamo un solo caso di dimissioni per “incompatibilità con la linea politica modificata in corsa”. Riguarda un dimenticato consigliere comunale di Gallarate, Valerio Lavazza, eletto nel secolo scorso con i Verdi, che lasciò lo scranno comunale per intervenute divergenze con la sua segreteria. Eccezione che conferma la regola dell’incoerenza generalizzata, piegata all’opportunismo, specialmente ai livelli più alti. Laddove il misero gettone di presenza che si riceve in un’assemblea civica non compete nemmeno di striscio con le indennità e i benefit di onorevoli e senatori. Scherziamo? Per non evocare ancora una volta il “divo” Andreotti (“Le dimissioni in Italia è meglio non darle, potrebbero accettarle”), restiamo alla chiosa di Giggino. Testuale: “Chi cambia casacca, tenendosi la poltrona, dimostra di tenere a cuore solo il proprio status, il proprio stipendio e la propria carica”. Attenzione: a chi obbiettasse che si può cambiare casacca anche per responsabilità istituzionale, non esiteremo a rispondere alla grillina: con un Vaffa.

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