Maschi contro femmine, molto più di un film

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di Gian Franco Bottini

Triste primato il nostro: quello del Paese con il più alto numero di “femminicidi”. Così la notizia è comparsa sulla  stampa estera e nessuno in patria ha obbiettato alcunché; della sua veridicità si può anche dubitare, ma non si può certo ignorare che le cronache di questa estate ci hanno salvato ben poche giornate senza riportare episodi in proposito. Si tratta di delitti odiosi come tutti quelli strettamente legati alla differenza di genere o di razza; complessi da valutare perché ogni caso è un unicum e perché il fenomeno trae le sue radici da un intreccio millenario di portati religiosi, culturali, sociali  e, a volte, anche politici.

Una cosa è comunque comune in tutte le circostanze di “femminicidio”: un genere, quello maschile, è l’offensore, l’altro è l’offeso. La storia in proposito è lunga. Già nella Bibbia quando si parlava di adulterio (e relativa lapidazione) ci si riferiva esclusivamente alla trasgressione della moglie, così come è ancora in molti Paesi di fede mussulmana.

Anche in Italia, questo tipo di visione del tutto maschilista, fin dal lontano passato fu visto “di buon occhio”, sulla base dei costumi locali formatisi, soprattutto nel sud, con l’incrocio di culture a ciò predisposte. Una questione di usi e costumi che però, nella stesura del primo codice penale italiano, intorno al 1890, venne formalizzata con la fattispecie del “delitto d’onore” che, con  tutte le attenuanti previste, era una sorta di depenalizzazione di specifiche categorie di delitti. Quel codice aveva però il pudore di non fissare un “genere” specifico al quale applicarlo, per cui nella forma ma non nella pratica, uomini e donne parevano aver raggiunto, almeno in quel caso, la parità di trattamento. Pareva, perché poi collateralmente era sbucato il “matrimonio riparatore” che depenalizzava qualsiasi abuso sessuale perpetrato nei confronti di una donna. Film e letteratura hanno lasciato ampie tracce in proposito.

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Gian Franco Bottini

Queste erano le ipocrite leggi di inizio ‘900, ma ben diverso era quello che nella realtà succedeva, al punto che nel 1930, con l’avvento del regime, il nuovo codice penale faceva piazza pulita di tutte le ipocrisie e, in sintonia con il sogno del superuomo italico, definiva il “delitto d’onore”, con tutti i suoi sconti di pena previsti, indiscutibilmente applicabile solo ai cittadini di sesso maschile, con un salto all’indietro di qualche secolo. Poi, con la Repubblica arrivò la democrazia, ma sull’argomento restarono molte resistenze al cambiamento. Si cominciò a parlare di abolizione agli inizi degli anni ‘60 ma solo nel 1981 (dopo che erano già state archiviate, non senza fatica, le battaglie civili su adulterio, divorzio e aborto) il “delitto d’onore” veniva abolito. Un passaggio importante sul percorso della “parità dei generi”, anche se non determinante visto il triste primato al quale abbiamo in apertura accennato.

Ma si sa che argomenti di questo tipo, fortemente fondati sulla persona, hanno una gran difficoltà a divenire patrimonio di una intera popolazione; soprattutto se questa è variegata come la nostra, che lo è per istruzione, cultura, origini, realtà sociali, religiosità (non dimentichiamo che il 9° comandamento, ancora ai tempi (lontani ma non lontanissimi!) della nostra Prima comunione, recitava : “non desiderare la donna d’altri”, ignorando addirittura la possibilità dell’esistenza di un peccato a generi invertititi!

Se per scrivere una legge impiegammo 20 anni per fare il resto occorrevano dei cambi generazionali e  una volontà precisa nell’accettare un concetto di per se molto semplice : fra uomini e donne,  il rispetto deve essere uguale e reciproco, sia  nella persona che nella sua libertà.

I cambi generazionali, si sa, cominciano dall’infanzia, nella scuola e nella famiglia, dove gli esempi possono essere più pregnanti di tante parole. I recenti episodi, che hanno coinvolto “branchi” di adolescenti, ci dicono però che in materia si è fatto davvero poco e in alcune realtà urbane addirittura nulla; pur non nascondendo che il problema immigratorio può avere complicato le cose, risultando inquinante e qualche volta addirittura infettivo.

Il problema dell’”uguaglianza di genere” non ha bisogno di piazze e di comizi, ha bisogno soprattutto di esempi. Le minacce punitive, soprattutto su quelle fasce giovanili a rischio, non avranno sicuramente un gran effetto educativo; c’è da augurarsi che siano almeno un richiamo alla responsabilità per chi dovrebbe educare, genitori in primis. La responsabilità delle generazioni “avanzate” sta nell’inculcare in quelle giovani (con l’esempio) quel concetto di parità fra i due generi di cui si è detto, avendo ben chiaro, senza infingimenti, che  una parte del genere maschile soffre spesso di “cattiva digestione” verso l’argomento.

Altrettanto chiaramente dobbiamo però dire (ben consci delle critiche che ci arriveranno) che su questo difficile percorso anche il genere femminile deve fare la sua parte, cambiando passo con umiltà ed intelligenza. Non serve assolutamente alzare la voce e puntare il dito per fare del maschio un “avversario”; occorre l’impegno nel guadagnarsi il suo rispetto con i fatti, gli atteggiamenti e i comportamenti che, pur mai limitativi della propria libertà, possano essere, per la loro dignità,  fortemente educativi nei suoi confronti.

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