Niente di irragionevole

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L'ex magistrato Carlo Nordio: se il centrodestra dovesse vincenre le elezioni c'è chi lo indica come futuro ministro della Giustizia

di Adet Toni Novik

Che differenza c’è tra un pubblico ministero e un giudice (anche se in pensione, mi considero ancora tale)? Veniamo tutti dallo stesso concorso, abbiamo studiato sugli stessi testi, dobbiamo (forse è meglio dire, dovremmo) confrontarci con la stessa giurisprudenza. Dovremmo concludere che siamo uguali? No. Per la fondamentale ragione che il compito del pubblico ministero si esaurisce nel fare richieste al giudice, ma è questo che decide. Che sopporta su di sé il peso della decisione. Che ha il dovere di rendere una decisione giusta. Volendo esemplificare, il pubblico ministero può anche formulare una richiesta errata, o ignorare dati processuali o normativi. È obbligo del giudice rigettare la richiesta errata, o ricondurla ai suoi corretti binari processuali e normativi.

Non seguo più che tanto le vicende elettorali. Che dire, mi hanno annoiato le manfrine, le promesse, le iperbole. Ma quando ho sentito che nel programma Verso il voto di La7 andato in onda mercoledì 29 avrebbero discusso gli ex magistrati Nordio e De Magistris ho deciso di seguire il dibattito. Nordio viene indicato come il probabile Ministro della Giustizia in caso di vittoria elettorale della destra, quindi niente di meglio che sentire in anticipo cosa ci riserverà il post Cartabia. Il programma elettorale disegna il progetto del possibile Ministro, per cui ho registrato la trasmissione. L’ho sentita con calma.

Carlo Nordio è andato in pensione nel 2017 e dal 1982 ha svolto la funzione di pubblico ministero. Ho letto molti suoi articoli pubblicati sui quotidiani che hanno toccato, per quel che mi consta, l’ordinamento del Sistema giustizia nelle sue articolazioni: giudice, pubblico ministero, CSM.

In effetti nell’intervista televisiva, dopo aver parlato di temi generali, Nordio è sceso nel particolare della procedura. Mi ha colpito questa affermazione, che trascrivo letteralmente (ho aggiunto solo la punteggiatura). Dice Nordio: “Secondo il codice di procedura penale, una persona può essere condannata soltanto quando le prove a carico sono al di là di ogni ragionevole dubbio. Se una persona già è stata assolta, significa che un giudice ha già dubitato, dubitato al punto di assolvere; quindi come fai a condannare una persona in base al di là di ogni ragionevole dubbio quando è già intervenuta una sentenza dove un giudice ha dubitato? Ma il paradosso da noi è ancora più lacerante perché tu puoi avere un processo dove una persona viene giudicata durante sei mesi, un anno di udienze, dove nell’oralità del dibattimento vengono sentiti consulenti, testimoni, imputati e la persona viene assolta. Poi vai in corte di appello, in corte di assise di appello, e in tre ore guardando semplicemente le carte ti danno l’ergastolo, senza che siano intervenute nuove prove, senza rifare il processo, come si dovrebbe in un rito accusatorio; ecco questo secondo me è un sistema irragionevole”.

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Adet Toni Novik

La frase coinvolge due diverse situazioni. La prima, a monte, si riferisce all’impugnazione da parte del pubblico ministero della sentenza di assoluzione. Dalle statistiche dell’anno 2020-2021 si ricava che le Corti di appello su appello del Pm hanno riformato 9.435 sentenze di assoluzione in sentenze di condanna. Quindi il problema dell’errore del giudice di primo grado esiste, e può essere dovuto a diverse cause: errata o omessa valutazione di alcune prove, errore di valutazione giuridica o altro. La giurisprudenza se ne è fatta carico e ha imposto al giudice di appello che riforma in toto la sentenza di assoluzione di provvedere ad una motivazione rafforzata che dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Ma, ciò che è dirimente è che nel 2006 la legge Pecorella introdusse il divieto di appello del Pm contro le sentenze di proscioglimento. La legge fu dichiarata incostituzionale. Una norma dichiarata incostituzionale non può essere riproposta se non vengono prima eliminati i punti di contrasto con la Costituzione. Affermò allora la Corte che la norma censurata estesa a tutti i reati, anche quelli più gravi, racchiude una dissimmetria radicale tra i poteri di impugnazione dell’imputato e quelli del Pm contrastante con il principio di parità delle parti nel processo.

La seconda situazione, che dalla prima discende, chiama in causa il modo con cui si perviene al ribaltamento della sentenza assolutoria. Se fosse vero quello che ha detto Nordio, secondo cui il passaggio dall’assoluzione alla condanna in appello può avvenire solo in base alla lettura delle carte, senza sentire consulenti e testimoni, il sistema sarebbe certamente irragionevole. Ma le cose non stanno più così. Già dal 2016 le Sezioni unite, sulla base dei pronunciamenti europei, avevano stabilito che nel giudizio d’appello, è consentita l’affermazione di responsabilità dell’imputato prosciolto in primo grado sulla base di prove dichiarative solo se vengano nuovamente, direttamente, assunti i testimoni. Il principio era stato ribadito più volte dalla Cassazione, e con la legge 23 giugno 2017, n. 103 esso è stato introdotto nel codice di procedura con il comma 3bis dell’art. 603 secondo cui: “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. E sempre nell’ottica di una maggiore tutela dell’imputato, le Sezioni unite hanno esteso l’obbligo di rinnovazione anche alle dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico.

Come si vede, molti difetti possono essere addebitati a questo codice (che, a breve, sarà stravolto quando saranno emanati i decreti delegati relativi alla riforma del codice), ma almeno quello indicato da Carlo Nordio è stato già risolto.

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