Noi e i russi: la rivalità-amicizia insegnata dal basket

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Un'immagine della storia del basket: 1971, Ignis Varese vs Armata Rossa Mosca

di Massimo Lodi

Inizio Anni Settanta: Alexander Gomelsky era l’allenatore dell’Armata Rossa, la più forte squadra dell’Europa baskettara (che arrivava fino a Mosca) assieme al Real Madrid. Poi comparve la stella Ignis. La stellare Ignis. Proprio contro Gomelsky vinse a Sarajevo la prima Coppa dei Campioni. Seguirono infiniti scontri, a Varese, nella capitale dell’allora Urss, in località neutre di finalissime. Nacque una rivalità accesa. Anche una stima reciproca. In qualche caso, una gradevole amicizia. Facevo allora il cronista sportivo, conobbi e intervistai Gomelsky, il capitano della squadra – e capitano dell’esercito – Sergej Belov, il fratello Alexander, pivot degno d’un antagonista come Meneghin; il fisicissimo Edesko, baffi da moschettiere, capace d’essere ala e regista insieme; il lunghissimo e ingobbito Zarmukhamedov, 212 centimetri, un boscaiolo della Siberia. Faticava a entrare nelle camere del City Hotel o del Palace, dove alloggiava, talvolta qui talvolta là, questo formidabile team.

Mi vien da sorridere quando leggo le dichiarazioni di Dmtry Medvedev, ex presidente del suo Paese, ex primo ministro e oggi vice di Putin. Dice: odio gli occidentali, sono bastardi e degenerati, vogliono la nostra morte, che spariscano per sempre. Dico sorridere perché non è una brutalità. È una sciocchezza, il che appare assai peggio. Molti russi, credo la maggior parte dei russi, non la pensano come lui. Certo non la pensavano come lui Gomelsky, i fratelli Belov, Edesko, Zarmukhamedov.

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Massimo Lodi

Mostravano apprezzamento, curiosità, ammirazione verso l’Occidente. E un amore speciale per gl’italiani. Per Varese, poi, cenni perfino adoranti. Mi raccontò una volta il Belov capitano, capelli biondi/occhi celesti, passeggiando nei giardini del Palace, da dove si scorgeva il panorama mozzafiato dei laghi prealpini, del Campo dei fiori, del Sacro Monte e molto altro ancora: “Venire qui è ogni volta una festa e una meraviglia. Si ha la percezione del bello”.

Così almeno mi parve di capire, essendo le chiacchiere in un reciproco/artigianale inglese, e per di più sotto l’occhio sorvegliante – e tuttavia discreto – d’un funzionario del Partito comunista. Ci rivedemmo in successive occasioni, con Genius Belov (era il suo “nom de plume” di fuoriclasse) e gli altri. Il rapporto di cordialità si rinsaldò. Perfino Gomelsky, che incuteva ghiaccia soggezione nel giornalista di giovane penna, regalò qualche rilassante battuta, pur in vigilie tese. Come per esempio, marzo 1973, a Liegi, sede dell’ennesimo match-Coppa tra Armata Rossa e Ignis. I favoriti erano loro, a vincere fummo noi: 71-66. Decisivo lo spirito diverso: da una parte prevalse il peso della responsabilità, dall’altra la leggerezza dell’entusiasmo.

Continuava a far scuola l’insegnamento di Sarajevo ’70: ospitate nel medesimo albergo, le due squadre pranzavano/cenavano nella condivisa sala ristorante. Seri, silenziosi, a capo chino i russi. Ciarlieri, allegri, burloni i gialloblù. Rusconi e Ossola guidavano il tiro di palline ricavate dalla mollica di pane verso il tavolo avversario: fu una goliardata dal grande incasso psicologico. Il 9 aprile, Varese über alles: 79-74.

Episodi d’una frequentazione agonistica divenuta abituale, un vero e proprio “classico”, cementarono lo spirito solidale fuori del campo. Contendenti sì, nemici mai. Esportammo un’intrigante immagine dell’Italia, importammo il desiderio di somigliarci. Espresso in genere con eloquenti occhiate, per ragioni di prudenza. Ma talvolta, al riparo dalle orecchie della nomenklatura a stellette, con esplicita convinzione. Ma quale antioccidentalismo. Ma quale bastardaggine. Ma quale degenerazione. E stavamo ancora nel tempo dell’Unione Sovietica, della guerra fredda, dei muri. Pensate un po’. E rideteci su.

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