Quando la vittima è una donna: femminicidi

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di Adet Toni Novik*

Secondo la Treccani per “femminicidio” si intende una: “Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale”.

In questa definizione non mi ci ritrovo del tutto. Mi sfugge il senso della “eliminazione fisica di una donna in quanto tale”, come se si fosse in presenza di un omicidio di genere e non a quello di una specifica e determinata donna, con un suo nome e una sua identità. Il termine “femminicidio” in realtà sottende una ben definita realtà: l’uccisione volontaria di una donna nell’ambito di una relazione tossica o nel corso di una violenza fisica. Vi rientrano, a mio modo di vedere, ad esempio, gli omicidi commessi nel corso o a seguito di una violenza sessuale, o quelli domestici in senso lato, cioè ad opera di un marito, convivente o semplice partner. Non vi rientrano gli omicidi in cui la morte della donna è puramente casuale: infortuni sul lavoro, incidenti stradali o spari tra la folla.

Così delimitato il campo, una riflessione è necessaria: le statistiche dicono che al primo posto per donne uccise in rapporto alla popolazione femminile c’è la Lituania, seguono Croazia, Austria, Slovenia, Ungheria, Germania, Paesi Bassi, Francia, repubblica Ceca, Malta. Viene poi l’Italia, quart’ultima, seguita da Spagna, Svezia, Grecia. Non è, quindi, un problema solo italiano, e, per ricollegarmi alla definizione di Treccani, non mi risulta che nei Paesi che ci precedono – Olanda, Francia – e seguono – Spagna, Svezia – viga “una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale”.

Lasciando da parte i nominalismi, ritorno alla sostanza dei fatti. Stante la molteplicità delle variabili, il modo migliore per stimare i “femminicidi” è il ricorso alla categoria domestica, che indica uno specifico contesto di riferimento. I dati statistici ci dicono ancora che nel 2023 sono state 118 le donne uccise, di cui 96 in ambito familiare/affettivo. Si tratta di un andamento tutt’altro che in calo: nel 2020 le donne vittime di omicidi da parte di familiari, partner o ex partner erano state 101, poi 105 nel 2021 e 104 nel 2022. Generalmente, nelle analisi politiche e giornalistiche, si parla di “fenomeno” da prevenire. Non credo che il termine sia corretto, e, non è un aspetto irrilevante perché incide direttamente sulla strategia da applicare per contenerlo. Un fenomeno, per sua natura, è unitario e va affrontato come tale. È stato un fenomeno il terrorismo, che riguardava un contesto specifico e ben definito e fu risolto con le leggi sulla collaborazione e con operazioni di polizia mirate e a “togliere l’acqua dello stagno in cui nuotavano quei pesci”. È stato un fenomeno il rapimento a scopo di estorsione, ricollegabile a ben definiti contesti criminali – bande sarde e calabresi – che fu risolto soprattutto con il sequestro dei patrimoni delle vittime. È un fenomeno lo spaccio di droga, per il quale ci sono collaudati metodi di indagine: individuazione delle piazze di spaccio e dei soggetti coinvolti, intercettazioni, appostamenti ecc. E’ stato considerato un fenomeno, e affrontato come tale aumentando le pene previste per l’omicidio colposo, l’omicidio stradale: senza nessun esito, perché gli incidenti mortali non sono diminuiti, in quanto privi di natura unitaria, essendo le imprudenze riconducibili all’individualismo dei guidatori.

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Adet Toni Novik

Se guardiamo ai femminicidi in ambito familiare/affettivo, si vede che ad essere coinvolto l’intero è territorio nazionale, da nord a sud (Lazio, Piemonte, Trentino, Sicilia), e che rispondono a cause disomogenee. A volte, la spinta è la gelosia, altre, il desiderio di possesso, o anche l’incapacità ad accettare la fine di una relazione. Cause che possono coinvolgere qualsiasi nucleo affettivo. A volte sono precedute da segnali spia, come lo stalking o violenze fisiche, altre sono silenti e si manifestano all’improvviso. Nel primo caso possono essere adottati moduli di contenimento, come l’ammonimento del questore o il braccialetto elettronico, ma è evidente che sono misure che si fondano su un certo grado di collaborazione del soggetto imposto che si ferma davanti alla minaccia dell’autorità, mentre le cronache quotidiane dimostrano che la ferrea e ferma volontà di uccidere supera ogni barriera e spesso termina con il suicidio dell’aggressore. Chi è disposto a mettere la propria vita sul piatto della bilancia pur di conseguire lo scopo, non arretra di fronte a niente. Nemmeno l’arresto può essere determinante, perché, quand’anche ricorrano gli stringenti elementi che consentono la detenzione in carcere, vi sono limiti temporali invalicabili, e dopo tutto ricomincia. Nel secondo caso, ogni nucleo familiare può portare dentro di sé il germe della violenza, ed è impossibile ogni forma di prevenzione.

Se questo è il quadro, è evidente come nessun monito, pur proveniente da figure autorevoli come il presidente della Repubblica o il Papa – vox clamantis in deserto – possa sortire effetti, vista anche la caratura di chi delinque, refrattario a discorsi etici. Nei primi 15 giorno dell’anno sono già 7 i femminicidi certi (su altri gravano sospetti).

Che fare? È amaro dirlo, ma la prevenzione, pur con tutto l’impegno degli organi pubblici, non può arginare fatti di dimensione nazionale, seppure accomunati da fattori omogenei. Le leggi punitive hanno raggiunto l’apice e oltre non si può andare perché l’intervento penale normalmente è successivo al fatto. Rimane il versante culturale, ma vista la delinquenza giovanile che dilaga – intrisa di violenza, droga, edonismo esasperato – supportata da cattivi maestri elevati a idoli, le perplessità rimangono tutte.

È indispensabile un ribaltamento dei valori. Sarà sufficiente l’istruzione, l’inclusione lavorativa delle donne, una maggiore condivisione degli oneri familiari, da taluno indicati come i punti di partenza per prevenire i femminicidi? Non lo so. Solo il tempo potrà dirlo. Al momento c’è solo la flebile speranza che il rapido intervento punitivo, con condanne elevate, che si sta vedendo attualmente freni la mano di chi non ha tanta voglia di giocarsi la libertà. Ma se togliamo anche questa, che cosa resta?

*già magistrato della Corte di cassazione

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