Salvini impone la tregua. Giorgetti: «La Lega è una». E Maroni sta col ministro

Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti e Roberto Maroni

ROMA – «Adesso ho fame e vado a mangiare un piatto di pasta a casa, senza Di Maio e senza pizza». Più della tregua armata e della fiducia unanime al segretario, al termine del consiglio federale della Lega di ieri, 4 novembre, è l’ultimo tweet della serata di Matteo Salvini a dare il termometro della situazione all’interno del Carroccio. La frecciata del leader al vicesegretario e ministro Giancarlo Giorgetti, che era stato paparazzato al tavolo di una pizzeria romana con il suo collega di governo Luigi Di Maio, la dice lunga sulla crepa creatasi all’interno del movimento fondato da Umberto Bossi. E le dichiarazioni rilasciate pochi minuti prima dallo stesso Giorgetti non bastano a svelenire il clima: «Un bel consiglio federale. Una bella discussione, il confronto è sempre positivo – le parole dell’eminenza grigia leghista di Cazzago Brabbia battute dalle agenzie – Salvini ha ascoltato tutti, anch’io ho espresso le mie idee. La Lega è una, è la casa di tutti noi e Salvini ne è il segretario. Saprà fare sintesi, porterà avanti la linea».

La linea di Salvini

Sì, ma quale linea? Perché la frattura tra la Lega salviniana di lotta e di governo e la Lega giorgettiana di governo (Draghi) è ormai sempre più evidente, al di là delle ricomposizioni di rito. Al consiglio federale, convocato a Montecitorio in fretta e furia dal segretario dopo le polemiche sulle parole del ministro dello sviluppo economico contenute nel libro di Bruno Vespa, c’era tutto lo stato maggiore della Lega, compresi i governatori in videoconferenza e lo stesso Giorgetti entrato dal retro dopo aver illustrato in consiglio dei ministri il DDL concorrenza. Una riunione fiume, durata quattro ore e introdotta da una relazione di 50 minuti di Matteo Salvini. «Io ascolto tutti e poi decido, come sempre» aveva dichiarato il leader prima di arrivare a Montecitorio. La linea è chiara: a Roma si lavora per «il taglio delle tasse» e per smontare il reddito di cittadinanza (con buona pace di Di Maio e dei rischi di tenuta del governo Draghi), perché «nove miliardi per regalare redditi di cittadinanza a furbi ed evasori non è rispettoso per chi fatica e lavora, interverremo in Aula per dirottare sul taglio delle tasse una parte di quei miliardi», e in Europa si lavora ad un nuovo centrodestra con sovranisti e conservatori, perché «il Ppe non è mai stato così debole, è impensabile entrare nel partito popolare anche perché è subalterno alla sinistra. E noi siamo alternativi alla sinistra».

Resa dei conti rimandata

La resa dei conti però non c’è, al leader arriva la fiducia di tutti, come fanno filtrare le “veline” ufficiali a riunione ancora in corso: «Tutti coloro che stanno intervenendo, a partire da Giorgetti, ribadiscono totale fiducia nell’attività, nella visione e nella strategia del segretario Salvini». I retroscena riportano le scuse abbozzate da Giorgetti per l’«incidente» delle parole a Vespa «estrapolate da un contesto più ampio» ma anche una sua confidenza rispetto all’idea della collocazione europea della Lega, «Io non indietreggio». Così come filtra l’invito del “Doge” Luca Zaia ad «una segreteria politica ristretta» che detti la linea e a «non fare confusione», mentre si vocifera di sommovimenti in corso con il vicesegretario salviniano Andrea Crippa, già leader dei Giovani Padani, che starebbe chiamando a raccolta una sorta di corrente nordista alternativa «né con Borghi né con Giorgetti». Alla fine il consiglio federale «vota all’unanimità la condivisione della linea politica, affidando mandato pieno al segretario Salvini sulla via della Lega nazionale». E l’impressione è che le bocce rimarranno ferme fino all’assemblea programmatica dell’11-12 dicembre a Roma. Che sarà il luogo deputato a definire la linea del movimento. E qualcuno già evoca per Giorgetti l’immagine di Gianfranco Fini con il suo “Che fai, mi cacci?” all’assemblea del Pdl.

E Maroni si schiera con Giorgetti

Intanto irrompe sulla scena Roberto Maroni, ex governatore della Lombardia e già candidato sindaco a Varese, rientrato in scena con la nomina del ministro Lamorgese alla guida della consulta contro il caporalato: «Mi sembra che Salvini dia troppo poco ascolto a quelli che non la pensano come lui – le parole in un’intervista a “Repubblica” – ascolta solo gli yes man di cui si circonda. Sono convinto che su questo terreno si possa recuperare. A patto che Salvini si rimetta ad ascoltare le sezioni, gli imprenditori, la gente. E quelli come Giorgetti che lo criticano, ma sanno fare politica». Maroni si schiera apertamente con la linea governista del ministro di Cazzago Brabbia: «Sarebbe bene fare quello che dice Giorgetti. Occorre che la Lega aderisca al Ppe. Giorgetti che è il più democristiano dei leghisti ha ragione. Converrebbe anche a Salvini, che potrebbe prendere il posto di Silvio Berlusconi. Diventare così il leader di un centrodestra moderato in Italia in grado di dialogare con le forze di centro che non hanno tanta forza. Lasciando a Giorgia Meloni il ruolo della destra».

Le bordate di Leoni

E se la Lega di Varese torna a farsi sentire, alla vigilia del consiglio federale erano arrivate anche le bordate di uno dei fondatori del Carroccio, Giuseppe Leoni: «Si sono guardati bene dall’invitare i soci fondatori. Sono stati esautorati. Mi sento come un papà che non conosce più i figli – le parole del primo parlamentare della Lega insieme a Umberto Bossi –  io sono federalista, mentre Salvini fa il fascista. E poi è necessario legarsi ai sovranisti in Europa? Bisogna capire quale è la sua strategia. Io con lui sono 10 anni che non parlo». Leoni critica anche la convocazione dell’assemblea programmatica da parte di Salvini: «La fa a dicembre a Roma… ha dimenticato Roma ladrona. È diventato un nazionalista, mica la può fare a Milano. E poi l’assemblea la fa con i suoi, ha dato le tessere a chi la pensa come lui. Io non potrò andare».

Tregua Giorgetti-Salvini, ma il leninismo è finito

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