Segre e Meloni: memento democratico

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La senatrice Liliana Segre

di Massimo Lodi

Perché Liliana Segre, senatrice a vita e donna-simbolo dell’Italia migliore, affossa il premierato forte? Perché considera vero il pericolo d’una deriva autocratica. E crede utile dire una sua parola/molte sue parole su quest’emergenza. Un conto sono gl’interventi tecnici del giurista tale o tal’altro. Un conto sono le enunciazioni, in sospetto d’overcriticismo, del politico caio o sempronio. Un conto è la denunzia appassionata/impetuosa d’una figura super partes, non a caso issata su quel prestigioso scranno dal riconoscente Mattarella a nome della gratitudine tricolore.

“Non posso e non voglio tacere” scandisce Segre impartendo, semplice e chiara, una lezione di diritto costituzionale. La separazione dei poteri, a differenza del tempo di tribù preistoriche asservite a un capo, è il fondamento della democrazia. Affinché non si volga in autocrazia, va scansato il rischio di riforme temerarie. Come quella cara a Giorgia, finalizzata a concentrare strapotere nel presidente del Consiglio, che nomina i ministri al posto del presidente della Repubblica. Il primo indicato direttamente dal popolo, il secondo su nomina del Parlamento. Il secondo in condizione d’inferiorità rispetto al primo, libero di sciogliere le Camere senz’altrui intervento. E in grado di tenere sotto scacco i parlamentari. I quali sarebbero condizionati nell’individuazione del capo dello Stato che a sua volta condizionerebbe, potendo selezionare dieci giudici su quindici, la Corte Costituzionale. Il sontuoso premio di maggioranza attribuito dalla legge elettorale al vincitore uscito dalle urne renderebbe ininfluenti le minoranze di Camera e Senato, ingigantendo le facoltà dell’inquilino di Chigi. Questa non si chiama democrazia decidente, ma democrazia decadente.

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Massimo Lodi

Se l’obiettivo è rendere stabili gli esecutivi, si consegue eleggendo candidati perbene e autorevoli, restituendo allure ai partiti, diffondendo (restituendoci) una cultura di massa che inciti alla partecipazione anziché al disinteresse, promuovendo la società dell’interagire ovvero il principio cha ciascuno deve fare la sua parte. Sempre. Criticare e costruire, non demolire e dominare. Se riforma/aggiustamento della venerata Carta dev’esserci -nulla vieta che ci sia, e anzi sarebbe auspicabile che ci fosse- la via maestra rimane il confronto fra tutti, come fu settantacinque anni fa quando la si varò. Le altre sono vie brevi che conducono a rovinose scarpate, essendo figlie non della buona politica, ma di artifizi normativi.

Infine: la demonizzazone dei governi tecnici è solo un pretesto populista a sostegno del progetto meloniano. Ciampi, Dini, Monti e Draghi han benissimo supplito all’immobilismo dei leader di partito in frangenti cruciali della vita del Paese, salvandolo dalla bancarotta e non solo. Poterono farlo grazie al voto di sostegno del Parlamento, va sempre ricordato. Altro che sopruso commesso da “non eletti”. Così agiscono le democrazie rappresentative e non le tribù preistoriche. Così si manifesta il patriottismo materiale. Così funziona una nazione coesa.

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