Sindaci sottopagati, tutti gli altri strapagati

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Tirati per i capelli dalle prevedibili reazioni (non solo via social) alla notizia che gli amministratori di Busto Arsizio, sulla base di una legge nazionale, si sono aumentati lo stipendio, ci infiliamo anche noi nel dibattito nato attorno alla vicenda. Diciamo subito che, nonostante i cospicui ritocchi introdotti dalla norma specifica, la disparità tra amministratori locali, parlamentari e consiglieri regionali è ancora inaccettabile. Lo è sul piano economico come sul versante dell’impegno e delle responsabilità.

Ci spieghiamo. Un sindaco che intende svolgere il proprio ruolo con scrupolo gestionale e dedizione istituzionale è costretto, anche nelle città di media dimensione, a dedicarvi l’intera giornata. Una presenza continua per affrontare una marea di incombenze, dal buco nella strada alla pianificazione territoriale, dalle lamentele della sciura Maria alla programmazione economica del Comune, dalle richieste di un qualunque postulante alle faticose mediazioni politiche. Per dirla in un altro modo, un primo cittadino ha poco da stare allegro, se intende lavorare con serietà. E, con lui, gli assessori, perlomeno coloro ai quali sono state affidate deleghe di peso o, ancora, che operano, come si dice, in scienza e coscienza. Il tutto con “paghe” inadeguate, più basse di un semplice impiegato di una azienda privata.

A completare il quadro c’è il ginepraio burocratico che governa la macchina pubblica nel nostro Paese, e ci sono le responsabilità: basta una firma sbagliata, anche se vergata in buona fede, per finire nel tritacarne giudiziario e mediatico. Da qui si evince uno dei motivi per cui nessuno, o quasi, intenda avventurarsi in una simile esperienza: professionisti, imprenditori, persone con competenze acclarate sono in fuga dalle candidature nei municipi. “Chi me lo fa fare?” è la giustificazione più in voga.

Per contro, un parlamentare o, meglio ancora, un consigliere regionale, e senza generalizzare, se appena appena riesce a barcamenarsi nel mare magnum della politica politicante, se la passa alla grande: indennità complessive attorno o superiori ai 10mila euro mensili, benefit di diversa natura, impegno ridotto al minimo, tra sedute programmate nei soli giorni centrali della settimana e obblighi istituzionali che, per i cosiddetti peones di Montecitorio e Palazzo Madama, si riducono spesso ad alzare la mano per approvare o bocciare provvedimenti, ma su ordini delle segreterie. Quindi, neanche lo sforzo di prendere decisioni autonome.

Conosciamo consiglieri del Pirellone che da mesi, anzi, da un paio d’anni, sono letteralmente scomparsi dalla scena. Fanno gli imboscati per scelta, non prendono mai posizione né propongono leggi né, a quanto ci risulta, si danno da fare per le loro province o a favore del partito che li hanno espressi. Ma incassano comunque il lauto emolumento. Uno scandalo che la politica ad ogni latitudine e di ogni appartenenza tiene sotto traccia, come a voler negare l’evidenza. Posizione comoda, che un amministratore comunale non può neanche immaginare, essendo il suo comportamento esposto alla mercé di tutti. Di più, oggi un sindaco deve avere le capacità di un manager che gestisce un’azienda di centinaia di dipendenti e con obiettivi amministrativi ineludibili. Altro che storie.

Una volta ci si avvicinava all’impegno pubblico come fosse una missione. Una volta, però. Ora è cambiato il mondo, sono cambiati i contesti e i presupposti per cui un cittadino decide di dedicare il proprio tempo alla collettività. Con ragione, si pretende che un amministratore abbia la precondizione dell’onestà. Bene, lo si paghi il giusto e la si finisca di ingaggiare polemiche che hanno il pessimo retrogusto del becero qualunquismo o mirano a conquistare facili consensi elettorali. Il che è ancora peggio.

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