Trattori in piazza, ognuno difende la sua agricoltura. Qual è quella “buona”

In questi giorni i media riportano la notizia delle proteste dei contadini prima in Germania, a Berlino, protesta che si è poi spostata in Francia, a Strasburgo, e marginalmente vi sono state proteste anche in Italia. Qual’è l’oggetto delle contestazioni?
Il Parlamento europeo sta discutendo un regolamento per il ripristino della natura in ambito agricolo, ovvero ripristinare aree naturali per un estensione sino ad un massimo del 20% del territorio agricolo entro il 2030. Le ragioni di questa azione sono dichiarate nella premessa, si vuole con questa misura rallentare i problemi climatici, ma più nello specifico si vuole rallentare la perdita di biodiversità, il depauperamento dei suoli, il degrado dei ecosistemi. Nella premessa si ribadisce con forza che “ecosistemi sani forniscono alimenti e sicurezza alimentare, acqua pulita, pozzi di assorbimento del carbonio e protezione dalle catastrofi naturali provocate dai cambiamenti climatici. Sono essenziali per la nostra sopravvivenza, il benessere, la prosperità e la sicurezza a lungo termine, in quanto sono alla base della resilienza dell’Europa.”
Gli agricoltori, soprattutto del nord Europa non vogliono perdere superfici coltivabili, nella proposta del Parlamento Europeo sarebbe comunque contemplata una contropartita economica, ciò nonostante gli agricoltori ribattono che la perdita di un 20% di superficie coltivabile aprirebbe la strada all’importazione di prodotti da fuori Europa che non debbono soggiacere a tale regolamento prodotti che hanno da sempre meno vincoli ambientali dei prodotti europei.
I problemi ambientali segnalati nella parte iniziale della proposta di regolamento sono più che reali e contingenti, ma le misure proposte rischiano di essere inefficaci e forse anche deleterie se consideriamo il loro impatto ad un ambito non solo europeo.
Dobbiamo però essere del tutto onesti, nell’agricoltura europea non tutto è come ci viene raccontato, esistono problemi ambientali enormi a cui mettere mano, per di più ci sono situazioni molto differenti da Stato a Stato, da regione a regione, e gli interventi proposti se non dosati e controllati con cura rischiano di accentuare ancor di più le disparità sociali ed economiche degli operatori del settore. Anche l’agricoltura europea fa ancora grande uso di prodotti chimici, vi sono le lobby delle multinazionali che spingono i loro prodotti che spesso hanno forti ricadute ambientali, sono largamente utilizzati ogm per le colture.

Paolo Carlesso

Dicevamo prima che non tutti i paesi sono nelle medesime condizioni, la protesta è iniziata in Germania dove i produttori locali hanno aziende con un’estensione territoriale molto maggiori di quelle italiane e dove c’è meno attenzione al biologico. La Francia aveva situazioni non molto differenti da quelle tedesche, anche se maggiormente diversificate, l’agricoltura francese era tra le prime per quantitativi esportati, in pochi anni (meno di dieci) ha dovuto cedere il passo ad altre nazioni. Le aziende italiane sono piccole, la produzione è differente e vi sono produttori, non tantissimi come si spererebbe, votati ormai ad una produzione di qualità. Il settore agricolo italiano, nel rapporto con l’ambiente, (sebbene si abbiano condizioni molto differenti, e si debba lavorare ancora parecchio) non è tra gli ultimi in Europa, anzi, si può dire che vi sono alcuni produttori di assoluta eccellenza.

Per questo motivo, l’Italia dovrebbe avere un ruolo di maggior rilevanza e responsabilità di guida in ambito europeo, cosa non facile per gli ingenti interessi economici dei grandi produttori che spesso ricevono grandi finanziamenti dall’Europa.
Il problema principale che giustamente, da più parti, viene sottolineato nell’applicazione di un regolamento di questo genere è quello di avere necessità di importare prodotti agricoli da fuori Europa che non devono rispettare le norme ambientali della Comunità Europea. E’ evidente nel tentare di risolvere un problema, quello della biodiversità europea) se ne possono aprire innumerevoli altri, produzione di CO2 per trasporto delle merci, prodotti meno controllati dal punto di vista sanitario, competizione asimmetrica sui prezzi, depauperamento di territori fuori dall’Europa.
La gestione dei PAC ovvero dei fondi derivanti dalla Politica Agricola Comunitaria, potrebbe veramente essere determinante per la difesa dell’ambiente, ma occorre lasciarci alle spalle gli interessi politici e delle lobby.
Dovremmo riuscire ad essere autosufficienti dal punto di vista alimentare e questo dovrebbe essere il principio base per garantire un maggiore rispetto dell’ambiente, siamo consapevoli che non si può precludere l’ingesso di prodotti non europei, sarebbe anacronistico, ma, come Comunità Europea, dovremmo poter imporre il principio di reciprocità, ovvero le merci in ingresso dovrebbero rispettare i regolamenti europei anche per ciò che attiene alla produzione, per gli aspetti ambientali ma anche sociali e perché no, anche in termini di diritti civili.
La questione dell’utilizzo dei suoli mi induce a fare un parallelismo storico, ovvero all’utilizzo del suolo nel settecento, così come lo conosciamo da uno strumento eccezionale per vastità e perizia: la Misura dello Stato attuato nel nostro territorio sotto il regime austriaco tra il 1720 ed il 1750.
In quelle mappe ed in quei registri non vi era alcun lotto con la dicitura incolto, tutto il territorio aveva un uso: vi erano certamente gli aratori, gli aratori con viti, gli orti, i pascoli, le piante da frutto, i gelsi per la produzione serica, ma anche i boschi, con la differenziazione per le essenze, quelle di pregio: castagni e roveri, da impiegare nelle costruzioni, quelle meno pregiate per riscaldarsi o per mobili e altri oggetti. Non si può dire che non vi fosse biodiversità e i prodotti non erano destinati solo al proprio consumo, ma avevano un mercato, magari locale, ma di sicuro interesse. Oggi non è più così, dicevamo dei fondi dei PAC, questi fondi dovrebbero riuscire a sostenere, almeno in un primo periodo, filiere brevi, locali anche e soprattutto per difendere territorio, paesaggio ed ambiente.

Il territorio dove viviamo, ovvero il basso Varesotto, ma anche l’Alto Milanese, la Brianza, sono di fatto un deserto alimentare o quasi sotto l’aspetto agricolo, vi sono pochissime aziende agricole perché da decenni la logica speculativa ha di fatto relegato l’agricoltura in spazi sempre più marginali ed ora quasi esclusivamente interstiziali.
A mio modo di vedere il territorio non è del tutto perso, anzi è proprio in condizioni come la nostra che la sfida ambientale deve essere raccolta, magari essere promossa e almeno inizialmente sostenuta dalle politiche europee, al fine di avere una produzione agricola che non depaupera i suoli, che fa scarso uso di fertilizzanti e prodotti chimici, che è realmente a chilometro 0.
Si potrebbero sostenere piccole aziende che producono prodotti ortofrutticole di buona qualità, magari anche piccole filiere per la produzione di legno pregiato con soluzioni che potrebbero essere di sicuro interesse ambientale anche per le città.
Il grande vantaggio in una prospettiva di questo genere è però quello di contrasto al consumo di suolo, ma in questo caso non dovrebbe essere l’unico strumento.
Si rimane convinti che agricoltura e ambiente non possano essere in conflitto tra loro, tutto sta all’Europa che deve trovare la forza di affrontare le problematiche con idee più chiare e maggiore decisione.

Paolo Carlesso, Fagnano Olona

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