Tre ergastoli per l’omicidio Faraci. Anche la moglie Melina Aita è colpevole

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SOMMA LOMBARDO – Omicidio Faraci, tre ergastoli. Dopo due ore e mezza di camera di consiglio, la Corte d’Assise del tribunale di Busto Arsizio, presieduta dal giudice Renata Peragallo, ha emesso la sentenza di primo grado: fine pena mai per Melina Aita, moglie della vittima Antonio Faraci, e per i due tunisini Bechir Baghouli e Slaeddine Ben Umida, scappati all’estero da anni e quindi condannati in contumacia. Sotto shock Aita: «Sono gelata. Mi hanno violentato psicologicamente, come ha detto il mio avvocato». Basiti anche i famigliari della donna: «E’ un processo indiziario. Non ci saremmo mai aspettati una sentenza del genere» e i figli aggiungono: «Nostra madre è anziana e malata».

I giudici hanno dunque accolto le richieste del pm Rosaria Stagnaro. Alla lettura della sentenza Melina Aita è rimasta impassibile. I suoi avvocati hanno già annunciato il ricorso in appello. Il pubblico ministero, durante una requisitoria durata tre ore, secondo il pubblico ministero sussistono in questo processo indiziario, gli elementi per riconoscere ai tre imputati le aggravanti della premeditazione (per Aita e Bechir), della crudeltà, della minorata difesa e del rapporti coniugale che non riguarda soltanto Aita ma va esteso, stando al pm, anche ai due presunti complici in quanto consapevoli di aver assassinato il marito della donna che aveva organizzato l’eliminazione del marito.

Aita non ha rilasciato dichiarazioni: alla lettura del dispositivo è apparsa congelata, scioccata, incredula. Non ha proferito parola, non ha cambiato espressione. «Qui è stato ignorato il principio del ragionevole dubbio. Si tratta di uno schiaffo vero  – commenta a caldo Pierpaolo Cassarà – la mia assistita non aveva alcun movente per agire contro il marito. Hanno parlato di una relazione, ma senza prove. La mia assistita è stata sposata con il marito per 50 anni e non avrebbe avuto alcun vantaggio nell’ucciderlo. Nessuno: ne di natura sentimentale ne tanto meno di natura economica. Gli indizi non sono mai diventati prove. Questa condanna, in primo grado, è uno schiaffo al principio del ragionevole dubbio. Leggeremo le motivazioni, come è dovere fare, ma di certo ricorreremo in Appello». Stesso “umore” per Marco Brunoldi, che difende, seppur da latitanti i due tunisini accusati di aver materialmente assassinato Faraci: «Nessuna distinzione nelle pene. Nessuna distinzione tra le varie posizioni. Che non starebbero, comunque, secondo il quadro accusatorio sullo stesso piano. Anche noi ricorreremo in Appello». Melina Aita non andrà, per ora, comunque in carcere. La donna ha quasi 70 anni e soffre di una grave patologia. Il giudice disporrà una misura alternativa, quale ad esempio l’obbligo di firma, in attesa che una sentenza passi in giudicato.

 

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