Rovescio varesino della Lega e Repubblica del buonsenso

L'OPINIONE DI MASSIMO LODI

Varese, la storica sede della Lega

di Massimo Lodi

Stuporoso il rovescio varesino della Lega? Niente affatto. La città è d’un legno conservatore, con rare tacche sovraniste. Salvini non ne ha mai scaldato il cuore. Figuriamoci se con un poker di presenze che hanno inquietato i moderati, anziché galvanizzarli. Dal palco di piazza Monte Grappa, qualche settimana fa, Giorgetti negò l’esistenza di due Leghe, l’una proclive al radicalismo e l’altra al suo opposto. Il voto del ballottaggio lo smentisce: le Leghe sono due. Evocare a casa nostra quella che contende alla Meloni i voti estremi s’è rivelato uno sbaglio esiziale. Fumi piazzaioli di vapore aggiunto. E basta.

Peraltro il segnale dell’equivoco irrisolto, e del trend locale contrario al verbo capitanista, era venuto dalla sentenza del primo turno: la lista Varese con Bianchi (formata da Forza Italia, Noi con l’Italia e il Popolo della Famiglia) pareggiò la Lega, solo un lieve scarto tra le due. Riflessione: i centristi avanzavano, bisognava seguirne il percorso. Le adunate comiziali han marcato un tracciato diverso, favorendo Galimberti. Che è uno specialista della mediazione inclusiva: bastava guardare al rassemblement dei gruppi civici a suo sostegno per ottenerne conferma, e quest’orizzonte ‘pastellato’ del centrosinistra avrebbe dovuto suggerire al centrodestra i colori delle contromosse. Macché. Imbarazzante daltonismo, colpevole sottovalutazione. Quando si dice: essere maldestri.

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Massimo Lodi

Nel giorno zero, il futuro della Lega è un tizzone ardente. Governatori, Nord, imprenditoria, ceto medio, professioni, associazionismo – ovvero il potenziale blocco di sostegno al partito – obiettano alla strategia del segretario. Non vedono rappresentate le loro esigenze , vorrebbero influire (1) sulle prossime partite elettorali, cominciando dalla scelta del presidente della Repubblica; e non essere confinati (2) in una periferia protestataria. Giudicano assurdo che la parte trainante del Paese non ottimizzi i benefici del premierato di Draghi, i cui cascami – l’operosa governabilità in primis – han giovato ovunque al Pd. Sicché il chiarimento con Salvini verrà a breve. Altro che graffiare un giorno sì e l’altro pure il presidente del Consiglio. Invece: prepararsi a designarlo per il Colle, immaginarne il sostituto a Chigi, non sperare in elezioni anticipate nel 2022 e lavorare a un centrodestra unito per il 2023, quando scadrà naturaliter la legislatura.

Probabilmente così la pensa, anche se così evita di raccontarla, Giorgetti. È lui l’argine principale alla deriva salvinista. Lui che vorrebbe il capo del governo al Quirinale, non escludendo di poterlo surrogare in cima all’esecutivo per un anno di transizione. Lui che intrattiene agili/pragmatici rapporti di scuola postdemocristiana con Letta e Di Maio. Lui che i presidenti di regione privilegiano ormai al leader non più maximo.

È la corrente dei pattisti, favorevoli a scomporre e ricomporre l’attuale quadro generale. Ambiscono a un’intesa di campo largo che punti al concreto, sfrutti l’occasione della rinascita da Pnrr, tenga insieme forze centrifughe di nome, ma obbligate a convergere di fatto. Un’idea apprezzata sull’altro fronte politico. A Varese, per esempio. Galimberti che vince occhieggia a un quinquennio collaborativo con chi ha perso. Ecco l’occasione, offerta ai trasversali di frontiera, da cogliere al volo. Apriranno la strada al dialogo i ciellini sparigliatisi in squadre diverse alla vigilia del match, e ora forse/chissà disposti a riunirsi a pro del bene comune. Liberazione e comunione: cacciare il populismo e allearsi nell’interesse della civitas. Una tesi che piace al doge veneto Zaia, giorgettista sottaciuto, e che qui conosciamo prima che lui ce ne rivelasse la scoperta. Lontano da Venezia esiste una storica Repubblica del buonsenso.

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