«Cosa resta dell’esempio di Ferrari, Casula e Marrone?»

Manuela Lozza

Riportiamo l’intervento di Manuela Lozza durante la cerimonia in ricordo del tenente degli Alpini e comandante partigiano Carletto Ferrari che si è tenuta oggi, domenica 14 gennaio al cimitero di Bizzozero.

di Manuela Lozza*

L’impegno di Carletto Ferrari si è profuso fin dalle prime fasi dello scontro fra fascisti e partigiani: Carletto ha giocato un ruolo fondamentale fin dalla formazione di uno dei gruppi più valorosi, la celebre 121^ Brigata Garibaldi “Walter Marcobi”.

Quando ricordiamo i grandi eroi della storia, le figure universalmente riconosciute, quelle che troviamo sui libri al liceo, siamo abituati a immaginarle combattere in luoghi simbolo della nostra storia. Nelle grandi città, in posti il cui nome è diventato famoso proprio per le battaglie che hanno ospitato, così spesso ci dimentichiamo di quanto importante, specialmente per la resistenza, sono stati i piccoli centri, i quartieri delle città, i sentieri rocciose lungo le colline e le montagne che li circondano… Ci dimentichiamo e così dimentichiamo di insegnarlo ai nostri figli, ai nostri studenti, ai giovanissimi che ci circondano.

Il gruppo di Carletto Ferrari per esempio ha operato con determinazione nei territori di Bizzozero, Gazzada, Schianno, Gurone, Malnate, Vedano e Castiglione Olona. Svolgendo un ruolo fondamentale nella storia della resistenza. Perché il nemico fascista, meglio armato, dotato di mezzi di trasporto, di canali di comunicazione efficienti, di una capacità di spesa quasi illimitata grazie all’affamamento del popolo – fu in fine sconfitto grazie a una resistenza che fu di tutte e tutti coloro che operavano sui territori e che furono disposti/e al sacrificio.

Dopo aver già compiuto molte imprese, nel ’43 Carletto diventa famoso ai fascisti per aver distrutto un nucleo nero, per questo viene condannato a 9 anni di reclusione e comincia la sua latitanza, durante la quale Carletto non smette mai di combattere, col fucile ma anche con il cervello. Non solo scontri a fuoco che vedono i partigiani vittoriosi, ma anche operazioni che oggi chiameremmo di intelligence, che portano Carletto a una conquista  che si rivelerà fondamentale per il successo della resistenza varesina, lo smascheramento di una spia fascista all’interno del gruppo di Renè Vanetti.

Ma questa lotta continua, pure in latitanza, chiaramente attira ancor più l’attenzione delle forze nemiche, che organizzano un’operazione e nel luglio del 1944 cercano di catturare Ferrari che però riesce a sfuggire. Dopo un periodo di rifugio nel comasco, Carletto continua a lottare a Campione d’Italia e in Val d’Intelvi, dimostrando la sua tenacia e resistenza. Purtroppo, il 10 gennaio 1945, giorno che oggi ricordiamo, Carletto viene catturato: mancano poco più di tre mesi dalla liberazione.

Secondo la versione ufficiale, Carletto fu ucciso a colpi di mitra, subito!, mentre cercava di sfuggire ai suoi custodi. Tuttavia, le prove suggeriscono che fu una vera e propria esecuzione. E qui ci addentriamo in una parte della storia meno nota. Facciamo un passo avanti: è il 25 aprile 1945, Carletto è già morto da più di tre mesi, sono le 2 del pomeriggio e la lotta volge al termine. La guerra sta finendo, anche a Varese, ma all’interno delle Scuole Elementari di via Felicita Morandi, un piccolo gruppo di brigatisti neri continua la battaglia. A poche decine di metri da lì, alle loro spalle, un gruppo di prigionieri dell’Ufficio Politico della Guardia Nazionale Repubblicana, marcia verso le carceri dei Miogni. Immaginate: questo gruppo di fascisti noti come “l’antenna del regime” cammina sotto lo sguardo dei fucili partigiani della 121a brigata Garibaldi, una brigata che ha dato tantissimo alla causa, soprattutto in termini di giovani vite sacrificate. A un tratto uno dei detenuti, Filippo Conti, si distaccò dal gruppo, vuole a tutti i costi parlare con il capo partigiano “Claudio” Macchi e confessargli il suo coinvolgimento nell’assassinio del partigiano varesino Carletto Ferrari, avvenuto in realtà l’11 gennaio 1945, un giorno dopo la cattura.

La confessione di Conti, registrata su un foglio d’appunti, menzionava anche i nomi degli altri responsabili e il nome del mandante: il capitano Triulzi, uno dei peggiori criminali della RSI in provincia di Varese, noto a chiunque abbia affrontato un minimo di studi sulla resistenza locale, perché il suo nome esce su tantissimi documenti. Quel Triulzi, direttamente presente e organizzatore anche dell’omicidio di Marcobi. Quel Triulzi che godrà in fine dell’Armistizio.

Ma Torniamo alle ultime ore di battaglia. Secondo la narrazione fatta da Conti in quel 25 aprile nel centro di Varese, Il 10 gennaio 1945, dopo essere stato arrestato a Como, Ferrari fu portato a Villa Triste, dove poi venne ucciso dai suoi aguzzini per ordine di Triulzi, un gesto quindi voluto e rabbioso, non il tentativo di fermare un arrestato che tentava la fuga.

Tre giorni dopo, il 28 aprile 1945, gli esecutori materiali dell’omicidio di Carletto Ferrari furono fucilati. Il 28 aprile 1945 quindi si è conclusa la storia di Carletto Ferrari? Direi di no, considerando che oggi è il 14 gennaio 2024, Carletto è morto da 79 anni. E noi siamo qui.

Chi si trova qui oggi coltiva una sensibilità comune, che ci fa stare uniti e che rappresenta i valori fondamentali per ciascuna e ciascuno di noi. Per questo motivo chiunque sia qui oggi sa che Carletto Ferrari è un eroe. E siamo così certi, e così convinti di queste immagini di forza granitica, di prontezza allo scontro e all’estremo sacrificio, che alle volte è necessario soffermarci su un dato: quanti anni ha Carletto quando decide di dedicare tutta la sua vita alla liberazione del nostro Paese? Quanti ne ha quando viene martirizzato dai fascisti? Carletto non ha dedicato solo la vita alla causa partigiano. Carletto ha regalato la giovinezza. Certo erano anni diversi, in cui lo status di adulto si acquisiva prima, ma nessuno può negare che Carletto Ferrari sia morto da giovane. Carletto muore senza aver compiuto i 34 anni e guida uomini/ragazzi, che a volte di anni ne hanno la metà dei suoi.

La Resistenza fu un movimento estremamente giovane. Un movimento di ragazze e ragazzi, di figlie e di figli, di donne, di giovani padri di famiglia. Si è più audaci da giovani, certo. Ma forse si ha anche di più da perdere. Non c’era nessuno che partecipasse alla Resistenza senza essere consapevole del rischio a cui andava incontro, che portasse un biglietto compromettente girando in bici fra le vie della città, che parlasse a una radio clandestina da un appartamento al 3 piano, che educasse alla ribellione i compagni di fabbrica, all’eguaglianza le compagne della tessitura: tutti e tutte sapevano di poter morire, di poter essere torturati, stuprate, mutilate, umiliati.

E oggi? Oggi che il fascismo è un pericolo, se pur si spera di diversa natura, quanto siamo disposti al sacrificio? Oggi, con i decenni che ci sono stati in mezzo – il boom economico, l’individualismo, l’allontanamento dai valori tradizionali, la formazione di una sensibilità diversa da quella cattolica.

Quanto resta oggi dell’impegno che ha portato Carletto Ferrari, Nuccia Casula – morta a 23 anni – Calogero Marrone e tutti gli altri eroi varesini al sacrificio estremo? Oggi che usiamo costantemente la scusa del tempo per sfilarci da un impegno non remunerato, “non ho tempo”, “non c’è abbastanza tempo” ricordiamo quanto tempo questi eroi hanno regalato alla nostra libertà. Quanto? Tutto! Tutto il tempo che avevano, tutto il tempo che gli restava. Tutta la loro giovinezza che poteva essere spensierata, tutta la vita che avevano davanti, magari dei figli, magari un lavoro prestigioso, magari.

E, nella solitudine che ha accompagnato la mia riflessioni riguardo a cosa dirvi oggi, ho avuto un pensiero costante, suscitare in voi commozione, senza suscitarne troppa in me stessa. Riuscendo a restare lucida e a tenere chiara e salda la voce. Poi ho pensato alle parole della nostra assessora, che più volte ci ha detto di rivendicare la propria commozione come un valore. Io oggi mi permetto di rivendicare la commozione di tutti noi, non solo il diritto, ma la ricchezza della nostra commozione. È solo grazie ad essa – che è una spinta fortissima, un anelito ai valori più alti, al senso di giustizia più profondo – che noi possiamo, con altrettanta forza, sentire in noi un’altra emozione guida: l’indignazione. Rivendico allora anche il nostro diritto ad indignarci, per i saluti romani, per le pistole alle feste, per il porto darmi ai minorenni, per i femminicidi. Perché questa non è l’Italia libera e solidale che Carletto aveva pensato, non è l’Italia democratica per cui Nuccia e suo padre hanno dato la vita, non è quella solitale ed egualitaria per cui Calogero ha dato la sua.

Commozione, indignazione e impegno sono il viaggio a cui oggi tutte le persone di buon senso devono partecipare.

Sempre, e ancor più oggi, viva i nostri eroi!

*Consigliere comunale e presidente
Commissione Cultura Varese

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