VISTO&RIVISTO I rapporti umani come vaccino a qualsiasi epidemia

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di Andrea Minchella

VISTO

ANGELS IN AMERICA, di Mike Nichols (Stati Uniti 2003, 352 min.).

Un fiume in piena. Una narrazione ininterrotta, profonda e commovente. Un autentico e necessario spaccato della società americana alle prese con una delle pagine più scure che abbia conosciuto. “Angels in America” è questo e molto altro. Mike Nichols decide di trasformare in pellicola un lavoro teatrale, di Tony Kushner, già praticamente perfetto e completo. L’operazione non è semplice, ma il veterano di Hollywood riesce ad aggiungere un valore assoluto ad una “piéce” che apparentemente era nata solo ed esclusivamente per i palchi teatrali.

In questa nostra quarantena, anche culturale, può essere un’occasione unica la possibilità di guardarsi questa mini serie, prodotta dal gigante HBO, tutta d’un fiato, come se la sceneggiatura non avesse punteggiatura, come se noi stessi diventassimo i protagonisti di una vicenda apparentemente lontana, in realtà molto più “nostra” di quanto si possa immaginare. “Angels in America”, infatti, ci parla sì del contagio dell’H. I. V. nell’America “Reganiana” degli anni ottanta, ma ci descrive anche, in maniera cruda e cinica, il contagio parallelo, e più dannoso, a quello della malattia, ovvero quello del pregiudizio e della fobia nei confronti di un intero gruppo sociale della società americana. Ribattezzata come “la peste dei gay”, l’aids, infatti, fu per molto tempo ritenuta, moralmente parlando, come una piaga legata solamente al mondo” pervertito” degli omosessuali. Ci fu un pericoloso e dannoso equivoco che appesantì enormemente una situazione già estremamente difficile e triste. Nelle prime fasi del diffondersi di questa straziante e devastante epidemia, molti sottovalutarono il rischio di contagio perché associavano la trasmissione alle “sbagliate” abitudini sessuali. In realtà la malattia, senza orientamento sessuale, sociale e politico, colpiva e falciava indistintamente ogni individuo.

Il racconto si snoda attorno alle vite di diversi personaggi, interpretati da dei giganti come Al Pacino, Meryl Streep, Emma Thompson, alle prese con la malattia ancora alle prime fasi. C’è l’avvocato famoso e gretto, Al Pacino all’apice della sua capacità recitativa, che non vuole ammettere abitudini sessuali non protette. C’è la coppia di ragazzi, i bravissimi Justin Kirk e Ben Shenkman, che vive il contagio in una fase di crisi e di incertezza. C’è la drag queen Belize, materna e dissacrante, interpretata da un sorprendente Jeffery Wright. Ci sono il mormone insicuro, un esordiente e sorprendente Patrick Wilson, alle prese con una crisi profonda e con una madre gelida e sorda, una camaleontica Streep, e sua moglie Harper, una perfetta e centrata Mary-Louise Parker, alle prese con la fine dell’amore e una crisi esistenziale onirica e iconografica.

Come in una rappresentazione teatrale, molti dei personaggi, angeli compresi, sono interpretati dagli stessi attori che, come Meryl Streep che veste i panni di quattro personaggi diversi, basano la loro interpretazione su una necessaria ma non scontata capacità attoriale poliedrica di altissimo livello.

Durante la narrazione, in alcuni momenti fortemente iconografici, assistiamo all’entrata in scena degli angeli che rappresentano sì l’aspetto religioso della vicenda, tanti sono i riferimenti “biblici”, ma simboleggiano anche il lato catastrofico ed ironico della situazione in cui i protagonisti si ritrovano a dover vivere a causa della dilagante epidemia. Assistiamo ad una corale presa di coscienza sulla crisi sociale e ed esistenziale che la società contemporanea è costretta a vivere. Assistiamo ad una narrazione epica che delinea in maniera cristallina e sincera i tratti più oscuri di una società spaventata e vulnerabile.

L’opera, che si miscela ad una sceneggiatura dettagliata e perfettamente ritmata ed equilibrata, viene giustamente premiata con innumerevoli premi in tutto il mondo.

In un momento difficile e delicato come quello che stiamo vivendo, ripescare questo capolavoro, giustamente rimesso in “vetrina” da SKY, può essere un valido spunto di riflessione sulla enorme e reale vulnerabilità dell’essere umano, e sulla forza dei rapporti umani come unico vaccino a qualunque epidemia.

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RIVISTO

CONTAGION, di Steven Soderbergh (Stati Uniti 2011, 106 min.).

Niente di più attuale e di più premonitore. Nel 2003 l’instancabile Soderbergh confeziona un apocalittico “thriller” che sembra incredibilmente ripercorrere le tappe che il mondo, in questi giorni, è costretto a vivere. Un virus misterioso, probabilmente frutto di contaminazione tra pipistrello e maiale, arriva dall’Oriente per contagiare il tranquillo e invulnerabile Occidente. Un’epidemia polmonare che incomincia a mietere i primi morti, indistintamente, in tutto il mondo. Un vaccino che tarda ad arrivare ed un paziente “zero” che non si trova. Davvero troppo simile a ciò che stiamo, un po’ increduli ed un po’ spaventati, vivendo in questo periodo in cui la quarantena “quotidiana” sta, lentamente, cambiando le nostre abitudini. Un cast eterogeneo che rende questo lavoro ben fatto una puntuale riflessione sui punti deboli di una società apparentemente forte ed invincibile.

Purtroppo questo è un film. Suo malgrado, dopo 100 minuti circa, volge al termine. La situazione, invece, che stiamo vivendo ci spaventa in maniera particolare perché non sappiamo quando smetterà di cambiare le nostre vite.

Un bel film da rivedere per godersi la mai scontata né banale capacità narrativa di uno dei più prolifici autori statunitensi contemporanei.

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