VISTO&RIVISTO La grande illusione di assistere a un capolavoro

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di Andrea Minchella

VISTO

LA FIERA DELLE ILLUSIONI- NIGHTMARE ALLEY, di Guillermo del Toro (Nightmare Alley, Stati Uniti- Messico 2021, 150 min.).

Peccato. Guillermo del Toro con “La Forma dell’Acqua” del 2017 aveva stregato tutto il mondo con una fiaba tanto semplice quanto potentemente iconografica ed universale. La dolcezza e la durezza di quella storia ci aveva catapultato nel liquido amniotico che tutti noi bramiamo intimamente durante la nostra breve esistenza. La ragazza e la bestia marina diventavano un’unica forma di vita che dell’acqua si nutriva per vivere nell’eternità. Quello fu un capolavoro giustamente premiato in tutto il mondo.

“La Fiera delle Illusioni”, invece, rimane solo un’illusione di un’opera grandiosa ma in realtà, durante la visione, ci accorgiamo che non è un capolavoro. Il film è lungo, troppo, a volte lento, esageratamente rallentato nelle inquadrature e nelle messe a fuoco. La storia crea banali suspense e ripercorre un passato poco chiaro del protagonista Stan, uno stanco Bradley Cooper, che si spaccia per mentalista per seguire una specie di circo in cui il raggiro e lo spettacolo diventano pericolosamente la stessa cosa. In un’America degli anni quaranta, con la Guerra Mondiale sullo sfondo, strani personaggi ruotano attorno ad una Fiera delle Illusioni che si sposta di città in città per intrattenere distratti spettatori con “numeri” di magia, illusionismo “truccato” spettacoli “mostruosi”.

In questa comunità molto “felliniana” si muovono caratteri interessanti e ben definiti. La bravissima Toni Colette interpreta la chiromante Zeena. Suo marito Pete, un bravissimo David Strathairn, è un capace e sorprendente mentalista che colpisce presto l’anima tumultuosa dell’enigmatico Stanton/Cooper. La bellissima e gracile Rooney Mara interpreta Molly, la donna elettrica, di cui si innamora Stan. L’uomo forzuto, un perfetto Ron Perlman, non si fida di Stan e del suo amore per Molly. Infine Clem, un sempre centrato Willem Dafoe, mette in scena il numero più inquitante: davanti ad un pubblico un po’ annoiato un po’ incredulo mostra nella sua inquietante normalità l’uomo “bestia” che non ha nulla di bestiale se non il fatto di mangiarsi da vive le galline che Clem gli butta addosso.

L’uomo “bestia” non è altro che una persona normale soggiogata e, piano piano, resa dipendente dall’oppio, che perde, con il passare del tempo, i comportamenti e i modi di una persona “normale” per assumere l’istinto e il carattere di una vera e propria bestia. La fragilità di una persona diventa il punto di forza per il cinico Clem che “schiavizza” e spettacolarizza gli istinti più bassi di un uomo spogliato completamente della sua dignità.

Nella seconda parte del film la fiera e le sue dinamiche vengono abbandonate per la città e per ambienti più raffinati. Stan e Molly scappano per riproporre, in luoghi più esclusivi, i numeri di mentalismo che Stan crede di saper fare in maniera ineccepibile. Qui conosce la bella e misteriosa Lilith, una sempre maestosa Cate Blanchett, che sembra venuta fuori da un ritratto di Tamara de Lempicka. Lei, psicologa, lui mentalista- truffatore, insieme cercano di avvicinarsi a ricchi uomini per estorcere soldi in cambio di rivelazioni su parenti prematuramente scomparsi. Stan, però, esagererà tanto da mettere in pericolo la sua vita, quella di Molly e di Lilith. Si ritroverà presto come all’inizio della storia, misterioso e riservato, con il bisogno di un lavoro e un posto dove dormire.

Remake di un film del 1947, tratto da un romanzo di Gresham, il film di del Toro si ferma ad una grammatica stilistica manieristica che non riesce, però, ad emozionare e a travolgere come dovrebbe. L’intento si ferma ad una rappresentazione “noir” ben costruita ma che vive separatamente dalla narrazione, a volte appesantita, dell’intera vicenda.
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RIVISTO

ANGEL HEART- ASCENSORE PER L’INFERNO, di Alan Parker (Angel Heart, Stati Uniti- Canada- Regno Unito 1987, 113 min.).

Un viaggio inquietante e asfissiante nella parte più nascosta della nostra anima. Il “doppio” come cifra assoluta della ricerca e dell’introspezione. Il bene e il male che si siedono allo stesso tavolo per un caffè. De​ Niro e Rourke in uno dei più riusciti e agghiaccianti film del compianto Alan Parker. Da rivedere con il fiato sospeso fino all’ultima inquadratura.

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